Gli occhi di #Giulio #Cesare da #Dante ai #Promessisposi

Uno studio di #LucianoCanfora indaga le fonti latine che hanno nutrito la #DivinaCommedia(e non solo)

di Gian Luigi Beccaria (La Stampa 14/2/16)

Frammezzo alla ricchezza di dati obiettivi e riferimenti, cosa dimostra il volumetto di Luciano Canfora che esce col titolo Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante (ed. Salerno, pp. 97, € 8,90)? Mostra che chi scrive non si rifugia al fresco sotto un pero a contemplare le stelle, o si lascia lambire dallo zefiro vivificante di primavera che gli insuffla l’ispirazione, ma inventa, innova, costruisce i propri libri usando altri libri: racconta, ma al cospetto di quanto hanno fatto altri prima di lui, seguendoli, magari rovesciandoli.

Perché «gli occhi di Cesare»? Dante ha posto Cesare tra «li spiriti magni» del limbo, dove lo fa comparire «armato con li occhi grifagni». Non è casuale l’aggettivo. Non è totalmente invenzione di Dante. L’unica fonte latina che fornisca un ritratto fisico di Cesare è il capitolo 45 di uno dei testi più diffusi nel Medioevo occidentale, il De vita Caesaris di Svetonio. Il quale Svetonio aveva scritto: «nigris vegetisque oculis». Dante vuole mettere in rilievo gli occhi vividi, lucidi e neri, simili a quelli di un falcone, o grifone, di un uccello di rapina insomma: occhi fieri, lampeggianti, come di animale sempre pronto a ghermire.

Una volta indicata la fonte certa, Canfora compie un secondo passo, e cita Manzoni, capitolo VII dei Promessi sposi: c’è un bravo armato (sta a guardia dell’osteria dove Renzo, Tonio e Gervaso cenano insieme per preparare il colpo di mano del matrimonio clandestino) appoggiato al vano della porta che fa «lampeggiare ora il bianco, ora il nero dei due occhi grifagni». Nello stesso capitolo affiorano anche richiami al Giulio Cesare di Shakespeare, un passo del monologo di Bruto, quando parla dell’intervallo che si frappone tra il compiere un’azione terribile e il primo impulso a compierla, una sorta di sogno orribile, di incubo: quel passo è addirittura ripreso nel pensiero di Lucia angosciata durante la preparazione del citato matrimonio a sorpresa in casa di don Abbondio.

Cesare-Svetonio-Dante-Shakespeare. Canfora è implacabile. Esamina ogni dettaglio, non molla la preda. Non molla difatti il nostro Manzoni, e va al Cinque maggio, dove si mettono insieme Cesare e il Giustiniano di Dante di Paradiso VI: Cesare «fu di tal volo / che nol seguiteria lingua né penna». E Manzoni a sua volta scriverà di Napoleone: «di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno». E ancora Giustiniano, quando insisteva sulle fulminanti campagne di guerra di Cesare, prepara la via a Manzoni che nella sua Ode ci dirà dell’altrettanto fulminante, velocissima carriera guerresca di Napoleone: «Dall’Alpi alle Piramidi / dal Manzanarre al Reno…», e poi «scoppiò da Scilla al Tanai / dall’uno all’altro mar».

Stesso ritmo accelerato, stessa sequenza spazio-temporale vorticosa. In questi casi però Manzoni mette a confronto due grandi, Cesare-Napoleone. Nel capitolo VII dei Promessi sposi invece capovolgerà la prospettiva storica. Ormai pensa che la storia non è fatta dai grandi, tant’è vero che il Cesare dantesco dagli occhi grifagni ora è grottescamente rovesciato in un bravaccio. Una vera «stoccata anticesariana». A un bandito di strada sono attribuiti gli occhi del Cesare dantesco e svetoniano: è un gioco dissacrante, come Manzoni ama fare ogni tanto, per esempio (è sempre Canfora a notarlo) quando paragona Don Rodrigo che fugge scornato dal paese dopo il voltafaccia dell’Innominato al Catilina in fuga da Roma, come l’aveva descritto Sallustio nel De coniuratione Catilinae.

Siamo soltanto che alle prime venti pagine di questo denso volumetto. Nelle seguenti Canfora continuerà a parlare fittamente di Svetonio, e di Livio, di Orosio, di Lucano, di Sallustio, di Tacito, libri essenziali della biblioteca storica di Dante. Un piccolo libro, questo di Canfora, ma talmento ricco di riferimenti e di scaltrezza che non solo ci addottrina, ma dimostra compiutamente che forse la letteratura esiste – scriveva Zanzotto – «quasi come invito a entrare in un coro di citazioni». Ci vuole uno Sherlock Holmes della filologia come Canfora per scovarle, incrociarle, e interpretarle a fondo.

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