Gli aculei della #socialità
L’ #empatia, la #solidarietà e i loro paradossi: siamo pronti a trasgredire le regole della #convivenza, come mostrò #Platone con l’«anello di #Gige»
di Remo Bodei (Sole Domenica 18/9/16)
L’empatia, la solidarietà e i loro paradossi: siamo pronti a trasgredire le regole della convivenza, come mostrò Platone con l’«anello di Gige»
Schopenhauer racconta di un gruppo di porcospini che, in una fredda notte d’inverno, attanagliati dal gelo, si avvicinano l’uno all’altro per scaldarsi, ma si pungono e, quindi, si allontanano. Poiché hanno di nuovo freddo, si riaccostano, finché riescono a trovare una distanza ottimale, quella della tiepidezza. Da questo apologo scaturisce una diagnosi impietosa, ma sincera, dei rapporti umani. La maggior parte dei nostri comportamenti è, infatti, improntata alla tiepidezza nei confronti di quanti non abbiano con noi stretti legami: oscillano tra la blanda ostilità e la fiacca empatia, tra la distrazione e l’indifferenza.
Cosa può indurre – e, di fatto, induce – ciascuno a uscire dallo stato di tiepidezza e a condividere la vita e le esperienze degli altri nell’amore, nell’amicizia o nella solidarietà? Si tratta, talvolta, della scelta coraggiosa di dichiarare un disarmo unilaterale con cui, rinunciando ai nostri aculei e rendendoci rischiosamente vulnerabili, siamo pronti a subire le eventuali ferite prodotte dalle spine altrui. Più spesso, invece, siamo davanti a una generosità o a una benevolenza che non ha altro scopo se non quello di dare retta agli ideali del nostro io, alla parte più alta e migliore di noi, quella capace di spingersi fino al sacrificio della vita. Anche tenendo conto delle molteplici patologie che possono infettare ogni genere di relazione (tradimento, ingratitudine, invidia, odio), non esiste, infatti, un innegabile piacere nel condividere con altri la propria vita, le proprie esperienze e le proprie speranze, una gioia che consiste nell’espandere il nostro essere – quella che i filosofi del medioevo avrebbero definito expansio animi ad magna – e che solo la misantropia, il narcisismo o il cinismo possono negare nel ridurre le relazioni individuali e sociali al gretto calcolo, al miope interesse o a condotte dettate dal mero istinto di autoconservazione?
Al pari dei cerchi concentrici che si formano nel gettare un sasso nell’acqua, anche i rapporti umani diventano, tuttavia, tanto più labili, quanto più si allontanano dal centro di ogni soggetto. La condivisione tende allora a diventare sempre più astratta e meno sentita, più simile a un obbligo morale o giuridico che non a un’inclinazione spontanea e appagante: l’amore o l’amicizia si stemperano estendendosi a più persone e la solidarietà si diluisce nel rivolgersi a sconosciuti. Ci si chiede, dunque: Chi è realmente il mio prossimo? Solo chi mi sta fisicamente e affettivamente vicino oppure anche chi mi sta lontano? Esiste, inoltre, un’etica della vicinanza che non coincide con quella della lontananza? I valori morali e i diritti si applicano, infine, solo a chi appartiene alla nostra regione, al nostro Stato o alla nostra etnia?
In quest’ultimo caso, predomina in molti quel tipo d’insensibilità alla sorte altrui che è sempre esistito, ma che oggi si rafforza per effetto dell’incessante esposizione a notizie che, purtroppo, ruotano principalmente attorno a varie disgrazie (attentati, catastrofi naturali, esplosioni, incidenti aerei), il cui impatto emotivo è misurato attraverso la spettacolarità dell’evento e il numero delle vittime coinvolte: più sono, più dovrebbero impressionarci e commuoverci. Come ha osservato lo scrittore francese Georges Perec, nell’immaginario dei lettori o dei telespettatori perfino un treno che deraglia è tanto più vero, quanto più numerosi sono i passeggeri morti nella sciagura. Questa supplementare callosità dell’anima ottunde, cancella o lascia sbiadire il senso di umana condivisione del dolore (anche grazie all’alibi, psicologicamente molto convincente, che non si può portare la croce per tutti).
La condivisione non riguarda però soltanto il dare, ma anche il sottrarre agli altri ciò che è loro o il togliere ai propri simili quanto dovrebbe essere comune a tutti. Per capire i limiti e i paradossi della compassione, proviamo a prendere sul serio il provocatorio esperimento mentale esposto da Balzac nel romanzo Papà Goriot, ma erroneamente attribuito a Rousseau: «Che faresti, lettore, se d’un colpo potessi diventare ricchissimo uccidendo, con la sola forza della tua volontà, un vecchio mandarino nella remota Cina?».
Un test analogo aveva, peraltro, già proposto Platone nella Repubblica nel riferirsi al mitico anello di Gige, che ha il dono di rendere invisibili coloro che lo portano. Se potesse infilarselo, chi sarebbe in grado di resistere alla tentazione di commettere ingiustizia pur di impossessarsi in esclusiva di ciò che brama, di astenersi dall’arraffare tranquillamente quel che vuole al mercato, di entrare indisturbato nelle case e prendersi le donne che vuole, di uccidere, di liberare chi vuole dalla prigione, e di fare mille altre cose come un dio tra gli uomini?
Certo, la condivisione è difficile nel regime di scarsità economica che domina in questo mondo, nell’«aiuola che ci fa tanto feroci», dove, con le parole di Dante, è «mestier di consorte divieto», ossia della necessaria esclusione reciproca dell’altro dalla fruizione di beni limitati. Questa constatazione si applica non soltanto ai beni materiali, ma anche a quelli che hanno valore sentimentale o rientrano nella sfera del potere (si pensi alla gelosia, all’invidia, al desiderio di vendetta non solo per quanto riguarda l’amore e l’amicizia, ma anche per quanto riguarda la società e la politica).
Partiamo da ciò che, in termini psicologici, è più vicino all’individuo: dall’amore e dall’amicizia, appunto, per giungere in seguito, a tappe forzate, a esaminare alcuni tratti delle idee di solidarietà e fraternità. Non dimenticando, però, di tenere conto del fatto che vi sono situazioni in cui l’indifferenza nei confronti degli altri non è necessariamente un male, ma rappresenta, addirittura, un vantaggio. Si pensi, alla democrazia o al «diritto mite», nel senso di Gustavo Zagrelbeski, quale antidoto alle posizioni intolleranti e fanatiche di quanti presumono di avere sempre ragione e, senza essere sfiorati dal dubbio, condannano e perseguitano coloro che non sono abbastanza zelanti da assumere incondizionatamente posizioni estreme.
Oppure, si ponga mente al processo di «adiaforizzazione» (termine gergale in uso tra i sociologi per indicare lo sforzo di rendere le diverse culture indifferenti alle diversità, facendo, ad esempio, perdere importanza all’indossare o non indossare il velo da parte delle donne islamiche). Tale tentativo sembra attualmente in parte rallentato e, in parte, in certe zone, fallito. Questo per diversi motivi: perché il bisogno di identità è difficilmente negoziabile; perché l’ibridazione dei codici morali richiede molto tempo e soddisfa per ora solo esigue minoranze; perché, il multiculturalismo appare insufficiente a risolvere i problemi dell’integrazione.