#Fozio, il santo che amava #eretici e #pagani
di Livia Capponi (Corriere La Lettura 5/6/16)
Nunzio Bianchi e Claudio Schiano, insieme a una trentina di studiosi coordinati e diretti da Luciano Canfora, offrono per la prima volta in 1.300 pagine la traduzione italiana integrale, con testo greco a fronte e commento, della Biblioteca del grande teologo bizantino Fozio (820-891), «vescovo di Costantinopoli e patriarca ecumenico», come è definito nel suo manoscritto più prezioso, il Marciano greco 450, allestito dalla stessa cerchia di Fozio alla fine del IX secolo e portato a Venezia dal cardinal Bessarione a metà del XV secolo.
Quello che gli umanisti definirono «un tesoro, non un libro» è un imponente repertorio che in 280 capitoli riassume, analizza, critica e trascrive varie centinaia di autori, profani e cristiani, dal V secolo a.C. al IX d.C., autori spesso inesorabilmente perduti, basti pensare che per una novantina di essi Fozio è l’unico testimone. Una prima traduzione latina fu realizzata dal gesuita André Schott nel 1607, traduzione preziosa, ma macchiata dall’intento di epurare il testo da formulazioni eretiche, specie su temi teologici. Fra i tentativi successivi, una traduzione parziale in italiano a cura del giornalista e letterato illuminista Giuseppe Compagnoni uscì a Milano nel 1836, e non mancò di interessare Giacomo Leopardi.
Lo scontro fra Costantinopoli e il Papa di Roma, che i Carolingi avevano dotato di un regno in cambio del titolo di imperatore dei romani a Carlo Magno, verteva sulla supremazia territoriale per le province dell’Illirico e della Bulgaria. Il risvolto dottrinale era stato l’invenzione da parte di Papa Leone III (810) del dogma sulla «processione» dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, il filioque sempre rifiutato dalla Chiesa d’Oriente. Fozio, capovolgendo le posizioni, aveva dichiarato Roma eretica, scomunicando il Papa, misura radicale che gli costò la scomunica e la condanna. Alla crisi con i cattolici si intrecciò anche il conflitto interno alla Chiesa e alla politica bizantina, che causò nell’888 la definitiva caduta del patriarca, rinchiuso in un monastero nella cittadina portuale di Stenos, sul Bosforo.
Grande battistrada dell’umanesimo, avversario delle aspirazioni romane alla guida politica e spirituale della cristianità, Fozio fu a lungo considerato dal mondo cattolico come un nemico, mentre gli ortodossi lo fecero santo, seppure molto più tardi. L’avversione dei cattolici era frammista a un senso di inferiorità culturale nei confronti del grande erudito, attirato dalle opere pagane, dalle discipline matematiche e astronomiche, e persino dai romanzi dell’antichità. Fozio era stato condannato dall’VIII Concilio ecumenico (Costantinopoli, 869-870) in quanto cultore e diffusore, in una cerchia di adepti, della sapienza profana quae a deo stulta facta est , «resa stolta» cioè smascherata come falsa, dall’autorità religiosa. Di Fozio si diceva, fra l’altro, che aveva venduto l’anima a un mago ebreo, che praticava la negromanzia e che recitava di nascosto i poeti greci durante la messa. È pur vero che a quei tempi curiositas era sinonimo di passione per la conoscenza scientifica, ma anche di pulsione verso l’occulto.
Attraverso l’analisi dei manoscritti sopravvissuti, Canfora ricostruisce come Fozio e i suoi discepoli lavoravano. Dopo la lettura collettiva di ciascun autore, a turno redigevano, dividendosi il lavoro, dei testi, detti schedaria , che sintetizzavano i risultati della discussione, e a cui il patriarca aggiungeva sue considerazioni, un procedimento che Leibniz, lettore di Fozio, considerò come l’archetipo delle riviste moderne di critica letteraria. La tattica argomentativa foziana era di dare spazio al pensiero eretico, prendendone via via le distanze. Teorizzava apertamente che si può leggere di tutto, e si può condannare un testo solo dopo averne apprezzato le qualità o averne ricavato qualcosa di utile. Inveire contro gli eretici si deve, ma prima bisogna leggerli, farli leggere e commentarli.
La Biblioteca non fu mai un’opera scritta da Fozio per un «pubblico», ma nacque come strumento di difesa della cerchia di studiosi sciolta forzatamente al momento della caduta del patriarca. Per comprenderne la genesi bisogna decodificare le due lettere che incorniciano l’opera, in cui Fozio si rivolge al fratello Tarasio. In esse il patriarca allude cripticamente a un’ambasceria in Assiria, e dichiara di voler trasmettere al fratello il sunto di alcune letture a cui quello non era presente, per consolarsi in un momento drammatico da cui non sperava di uscire vivo. Canfora descrive questi documenti con un procedimento esegetico rigoroso, che è anche un giallo ad alta tensione e una dimostrazione assai istruttiva di come si scava in un testo antico.
L’Assiria non allude ad una reale missione di Fozio presso il Califfato di Bagdad, come si riteneva in passato, ma è una metafora biblica che indica la prigionia, così come l’ambasceria è il simbolo del tentativo dal carcere di parlare contro gli «infedeli», cioè gli oppositori religiosi. Il pretesto di aggiornare il fratello su letture a cui non avrebbe presenziato, invece, è l’ escamotage per salvare il destinatario del prezioso materiale dall’accusa di avere partecipato alla cerchia, ormai dichiarata fuorilegge. In tal modo Fozio crea il pretesto per mettere in salvo tutto ciò che gli era rimasto delle sue carte, il surrogato della vasta collezione di libri che gli erano già stati sequestrati e forse distrutti. Accosta capitoli rifiniti a materiali ancora grezzi, in un processo di lavorazione reso incompiuto probabilmente dalla sua morte.
L’opera non era, dunque, indirizzata ad un pubblico, ma a quel gruppo di studiosi, accomunati da un sacro amore per la letteratura greca, vicini al patriarca. Il titolo originale è, infatti, Catalogo dei libri letti da noi . Una non-opera, meglio definibile come l’estremo tentativo di salvare un patrimonio culturale in una situazione che, come si evince dal tono altamente drammatico delle parole di Fozio, non lasciava speranze.
La pubblicazione di questa miniera di erudizione è un traguardo ambizioso, anzi impressionante. Dalla sua parte, Canfora ha una grande storia di studi, che analizza e valuta senza tralasciarne alcuno, l’ expertise di una vita, la capacità di calarsi nella temperie storica dell’autore per coglierne le minime sfumature, e infine l’indispensabile collaborazione di un gruppo di studiosi competenti e affiatati. Una nuova cerchia, più fortunata e libera, è stata in grado di regalarci un «tesoro», restituendo al testo quell’integrità che, per tante ragioni, stavamo ancora aspettando.