Fine #dialettica in #Grecia Spirito #pratico a #Roma
La cultura #ellenistica fu recepita dai vincitori privilegiando sempre le applicazioni concrete
Nicola Abbagnano è l’autore
di Livia Capponi (Corriere 29/8/18)
O i filosofi diventano re nei nostri Stati, oppure quelli che noi chiamiamo re devono impegnarsi seriamente e perseguire la filosofia: ci dev’essere un incontro fra il potere politico e l’intelligenza filosofica, altrimenti i problemi che minacciano gli Stati e la stirpe umana non avranno fine. Più o meno questo affermava Platone, nella Repubblica (473d). Il nesso fra filosofia e politica fu recepito molto bene dal popolo più pragmatico della terra, i Romani. Con la consueta modestia, Cicerone descriveva il suo consolato e il proconsolato d’Asia rivestito da suo fratello come realizzazioni del sogno platonico.
Con la conquista della Grecia, a metà del II secolo avanti Cristo, vi fu un afflusso di ostaggi greci in Italia, fra cui retori e filosofi, che furono poi inviati a governare città e province, e usati come diplomatici in virtù della loro capacità di parlare e soprattutto di convincere. Nel 155 a.C. una delegazione ateniese composta dallo stoico Diogene, dal peripatetico Critolao e dallo scettico Carneade si recò a Roma per chiedere il condono di una multa. Catone il Vecchio commentava: «Questi uomini discutono così bene che potrebbero ottenere qualsiasi cosa vogliano». Durante il soggiorno nell’Urbe, i tre tenevano lezioni pubbliche: un giorno Carneade discettò della giustizia naturale come guida della politica negli affari internazionali, e il giorno dopo sostenne, con pari abilità, l’inesistenza della giustizia naturale stessa. Catone allora spinse il Senato a concludere i patti al più presto, cosicché i Greci tornassero ad Atene e i Romani si rimettessero a studiare la loro legge e le loro magistrature.
Soprattutto dal I secolo a.C., i rampolli della nobiltà romana presero ad andare in Grecia a completare gli studi, ma nella classe dirigente rimase ferma la convinzione che la superiorità intellettuale dei sudditi greci, come tutti gli aspetti della cultura ellenica, dovesse essere sottomessa al diritto, alla politica, alla forza militare di Roma.
Lo stoicismo ebbe particolare successo, e di fatto predominò per due secoli, a partire da Augusto. Mentre l’oratoria, frutto della libertà repubblicana, si spegneva, la tranquillitas e la securitas stoiche sembravano l’antidoto migliore alle frustrazioni politiche e ai postumi delle guerre civili. Anche gli epicurei godettero di un discreto pubblico. Nella sontuosa Villa dei Papiri di Ercolano, Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, s’intratteneva con Filodemo di Gadara, caposcuola epicureo in Campania, seguito anche da Virgilio e Orazio. Chi mal tollerava le coercizioni della politica del I secolo a.C. poteva trovare nell’atarassia e nel piacere epicureo una via di fuga.
Nel periodo imperiale i filosofi si trovarono a un bivio: contestare il potere monarchico o diventare maestri e consiglieri dei prìncipi? La filosofia poteva aiutare il sovrano a porre la domanda più importante: che differenza c’è fra un re e un tiranno? Com’è prevedibile, il rapporto fu burrascoso — basti pensare a quello fra Nerone e Seneca, conclusosi con il suicidio del maestro. Spesso i filosofi furono visti come pericolosi fomentatori di ribellione e furono periodicamente cacciati da Roma, con misure tanto crudeli quanto inutili.
Nel frattempo la filosofia si integrò progressivamente nella vita romana, raggiungendo un pubblico assai vasto. Il Trimalcione di Petronio, che si vantava di non aver mai ascoltato un filosofo, parla di concetti stoici, come l’uguaglianza di tutti gli uomini compresi gli schiavi. Più avanti, Luciano descrive una ragazza che, fra un pasto e un’acconciatura, ascolta il filosofo di casa discettare sulla castità, argomento evidentemente concesso alle donne.
Quando l’imperatore Marco Aurelio nel 177 d.C. propose al Senato di stabilire un tetto per i vertiginosi prezzi dei gladiatori, rinunciando alle tasse che lo Stato traeva da questa compravendita, fu elogiato per la coerenza con il suo orientamento stoico. Ma si trattava di un’eccezione; più spesso, come sostenne la studiosa Miriam Griffin, i monarchi romani trovarono nella filosofia greca non tanto direttive o soluzioni precise, ma un lessico, un vocabolario morale per soppesare alternative e giustificare decisioni politiche, in una società dove la religione tradizionale era poco metafisica, e ancor meno etica.