Evviva la #tecnica
Si dice: è la fonte dei guai della modernità Poi si aggiunge: è soffocante e ingombrante Che errore. Il «saper fare» ci rende uomini
È una storia cominciata poco più di tre milioni di anni fa quando qualcuno, di proposito, scheggiò un ciottolo di fiume Quello che oggi sembra un dominio incontrastato non ci sta «disumanizzando». Al contrario: ci ha «deanimalizzati»
di Edoardo Boncinelli (Corriere La Lettura 13/12/15)
Parlare male della tecnica e indicarla come la fonte di quasi tutti i guai della modernità, è divenuto un tema comune a molti esponenti di punta della cultura italiana. Si dice: «La tecnica è oggi sovrastante e soffocante, l’unico Moloch della nostra civiltà, e l’impedimento a ogni riflessione sensata sui suoi mali. La tecnica ci impedisce di pensare e ci travolge in virtù del suo incontrastato potere. Soprattutto “ci disumanizza”. Speriamo che intervenga qualcos’altro a salvarci — un dio, l’interiorità, la spiritualità o la bellezza — altrimenti siamo spacciati!». Molte sono le varianti su questo tema: si possono per esempio tenere separate scienza e tecnica, oppure farne un tutt’uno, qualcosa chiamato sprezzantemente la Tecnoscienza. Discorsi del genere piacciono molto e fanno molta presa, percolando giù giù fino alla nostra conversazione quotidiana e addirittura alla scuola, dove sento spesso dire cose simili dagli studenti, ispirati chiaramente dai discorsi di certi professori. Io non sono affatto d’accordo e mi consolo pensando che forse posizioni del genere sono solo ispirate da una falsa interpretazione della parola «tecnica».
La tecnica, termine che viene da téchne — che in greco antico significa arte, artificio, abilità, perizia — è quell’insieme di abilità tecniche umane, distinte dalle conoscenze teoriche e dal racconto degli eventi, che comprende le arti, le competenze tecniche di quelle che una volta si chiamavano «arti e mestieri», e l’operato di dispositivi semplici, macchine complesse e reti di macchine che caratterizzano il mondo di oggi. La tecnica, insomma, è saper fare, distinto dal sapere e dal fare ipotesi, e assistito spesso da oggetti progettati ad hoc.
È il prodotto principale, anche se non unico, dell’evoluzione culturale che ci caratterizza fra tutti gli animali, che hanno alle loro spalle un’evoluzione biologica, come noi, ma niente di più. La tecnica è uno dei tratti fondamentali dell’essere uomo. Noi costruiamo e utilizziamo in continuazione un certo numero di strumenti, intendendo per strumenti oggetti naturali, oggetti naturali modificati o oggetti assolutamente innaturali, usati da ciascuno di noi per raggiungere scopi pratici specifici. Dal sasso scagliato, alla semplice fionda e al trapano del dentista, siamo caratterizzati da un uso strumentale degli oggetti più diversi, per rendere più semplice la nostra vita e cambiarne in definitiva il rapporto con il mondo in cui ci troviamo. Anzi, la sua prima manifestazione rappresenta un’evidenza inoppugnabile del passaggio del testimone dai nostri antenati pre-umani a noi, come e più dei cambiamenti anatomici e funzionali. La tecnica quindi più che disumanizzare, può «deanimalizzare».
Si ritiene, infatti, che un po’ più di tre milioni di anni fa alcuni nostri antenati abbiano scheggiato di proposito le prime pietre, probabilmente ciottoli di fiume, per potersene servire. Da allora, dapprima assai lentamente, poi sempre più speditamente, è stato tutto un susseguirsi di invenzioni piccole e grandi, che hanno arricchito il nostro patrimonio di specie e forgiato il nostro modo di essere. Sono arrivate così l’utilizzazione pratica del fuoco, l’invenzione della ruota e molto tempo dopo una serie di manifestazioni biologicamente gratuite che mostrano un’attitudine rappresentativa, se non artistica tout court , dei nostri antenati diretti che disegnavano e istoriavano l’interno di certe grotte. Questo risale più o meno a quarantamila anni fa, ma una scoperta recente potrebbe far retrocedere la data d’inizio di manifestazioni del genere a quasi mezzo milione di anni fa. Le acquisizioni tecniche procedono quindi quasi di pari passo con la coltivazione di un talento artistico. Ciò viene solitamente riassunto nell’affermazione secondo la quale l’uomo è un animale simbolico, cioè capace di vedere al di là delle cose e di pensarle anche in loro assenza.
L’uomo vede il mondo come tutti gli altri, ma lo interpreta in maniera assai originale, scorgendo un potenziale strumento in un ciottolo o in un osso. Sembra che il suo scopo sia quello di cambiare il mondo — cose, animali, persone — come se quello che trova non lo soddisfacesse, o fosse «incompleto». Tutto ciò lo porta con il tempo a dominare un mondo che ormai reca sempre più spesso tracce del suo passaggio.
Ci sono però cose che si sono mosse molto velocemente e con grande efficacia e cose che si sono mosse più piano e con minore incisività. Le prime riguardano gli avanzamenti nel sapere e nel saper fare, e sono da ascrivere appunto al progresso tecnico-scientifico; mentre le seconde riguardano i comportamenti individuali e collettivi che contribuiscono al cosiddetto progresso civile, come miglioramento delle norme sociali osservate e delle inclinazioni individuali. È a causa di questa discrepanza che alcuni sostengono che nel tempo c’è stato un enorme progresso, mentre altri sostengono che ce n’è stato molto poco. In un certo senso hanno ragione entrambi, perché gli uni e gli altri si riferiscono a fenomeni diversi, almeno in parte. Le qualità dantesche di «virtute» e «canoscenza» seguono, insomma, vie abbastanza diverse, e diverso ci appare il loro destino.
A che cosa è dovuta questa differenza? Le conoscenze si possono trasmettere senza la necessità di viverle (o di riviverle), anche a distanza e in tempi diversi; la loro veridicità si può controllare, almeno in parte, e non implica giudizi personali, rimproveri o sensi di colpa. Questo vale per le conoscenze teoriche, cioè per la scienza, ma anche per quelle che possiedono un versante pratico, cioè quelle più marcatamente tecniche o artigianali. Chiunque le può valutare e ritrasmettere. La loro validità e la loro diffusione insomma sono collettive per natura, anche se magari utilizzate individualmente. Anche le norme comportamentali sono di tale natura, ma i comportamenti no. I comportamenti sono di natura squisitamente individuale. Si è liberi, infatti, di condividere cognizioni, ma di certo non comportamenti. E anche sul piano individuale non siamo completamente padroni del nostro agire. Natura collettiva, grande trasmissibilità e «cumulatività» da una parte; natura individuale, scarsa controllabilità e sostanziale sporadicità dall’altra. La stessa cosa si può dire chiamando in causa la storia, che ci insegna tante cose su un piano e così poche sull’altro.
Un secondo punto sul quale esistono molti fraintendimenti è quello del rapporto fra la scienza e la tecnica. La visione oggi corrente è quella secondo la quale la scienza trova nuove spiegazioni e combinazioni di eventi e la tecnica le mette in pratica. Certo alcune applicazioni pratiche, per esempio nel campo dell’elettronica, non si sarebbero neppure potute pensare se la scienza dell’immensamente piccolo non ci avesse messo a giorno delle sue leggi e della sua fenomenologia, e ci avesse quasi costretto ad abbassare lo sguardo sulle meraviglie di quel mondo minuscolo. Né si sarebbero neppure immaginate alcune tecniche di diagnosi molecolare condotte direttamente sul Dna, se non avessimo imparato tantissimo sul Dna e sui geni.
Ma è vero anche il contrario. Certe scoperte sono state possibile solo grazie alla disponibilità di tecniche adeguate, e sempre più spesso la ricerca sperimentale procede di pari passo con lo sviluppo di sempre nuovi strumenti e metodi d’indagine. La strumentistica è divenuta oggi contemporaneamente una sorta di fucina della scienza e una palestra della tecnica. Come è logico che sia. Le scienze sperimentali si basano sull’investigazione di nuovi fenomeni e tale investigazione è spesso assistita da strumenti nuovi, più e più sofisticati. È una caratteristica intrinseca di ogni sperimentazione la ricerca di problemi aggredibili con le tecnologie sperimentali correnti, senza essere costretti a immaginare esperimenti bellissimi sulla carta, ma che non si possono materialmente eseguire, almeno al momento.
Non c’è dubbio che la tecnica è venuta prima della scienza, molto prima. In un’epoca in cui non s’immaginava neppure che cosa volesse dire scienza, i nostri antenati già progettavano e realizzavano strumenti adatti ai più diversi scopi, lavorando materie prime naturali e fabbricando manufatti. Tutto questo è andato avanti per molto tempo, su una base sostanzialmente empirica. Poi, quasi all’improvviso, è arrivata la scienza sperimentale e intorno a quanto già esisteva sono confluite un numero sempre più consistente di conoscenze che hanno una solida base scientifica; la grande scienza produce sempre più spesso novità di carattere conoscitivo e pratico e molte di queste si rivelano importanti per lo sviluppo di applicazioni tecniche sempre più avanzate.
Ecco che allora si assiste al ribaltamento del rapporto fra scienza e tecnica, con la scienza che prende il comando delle operazioni e che sembra ispirare o addirittura trascinare lo sviluppo della tecnica. Ma ciò è vero solo in parte. Si osserva oggi in effetti un fenomeno di induzione di mirabili innovazioni tecniche in conseguenza delle scoperte scientifiche, ma molto del progresso tecnico si autoalimenta e può arrivare a ispirare nuove scoperte scientifiche, in un flusso quasi inesauribile. È così che l’uomo avanza e diviene sempre più uomo, distinto dagli animali, anche se irrimediabilmente distante dagli angeli. D’altra parte gli animali esistono e rappresentano in primo luogo il nostro passato, ma anche il nostro presente, in alternativa sugli angeli possiamo solo fare ipotesi.
Mentre sto scrivendo queste righe ascolto il Don Giovanni di Mozart nell’edizione diretta da Carlo Maria Giulini, un capolavoro di arte e di tecnica.