Eva #Cantarella. La lezione di #Omero sulla capacità di #autodeterminazione
Tra #libertà dagli dèi e #volontà umana
di Eva Cantarella (Il Sole Domenica 24/6/18)
Potrà sembrare singolare che per parlare del potere della libertà ci si rivolga a Omero, tornando indietro di alcuni millenni. Ma per rendersi conto di quale sia la rilevanza di quel potere nelle nostre vite è necessario tornare col pensiero al momento in cui la libertà nacque. E l’unica possibilità per farlo è rivolgersi ai poemi omerici, che documentano quando e come, nella cultura occidentale, quel momento si verificò. Ma prima di farlo si impone una premessa.
Che Omero sia storicamente attendibile è cosa già implicita in quanto scriveva Giovan Battista Vico nella Scienza nuova, definendolo «il primo storico della gentilità», e che è oggi comunemente riconosciuta. Beninteso, intendendo per storia non quella degli avvenimenti, ma quella dell’intero patrimonio culturale di un popolo: nella specie, della Grecia arcaica. Come è ben noto, infatti, nei 26mila versi di cui Iliade e Odissea si compongono sono confluiti i canti orali con i quali i famosi aedi o rapsodi intrattenevano il pubblico nei secoli in cui la Grecia era ancora totalmente preletterata, e come tutte le culture di quel tipo disponeva di un solo strumento per comunicare e trasmettere la sua cultura di generazione in generazione, vale a dire i poeti: gli aedi e i rapsodi. E questo fa sì che grazie all’Iliade e all’Odissea sia possibile ricostruire il processo che portò i greci alla scoperta della prima fondamentale libertà dell’essere umano: quella dagli dèi e dal fato. Cosa che accadde partendo da un momento nel quale essi davano per scontato che tutto quel che accadeva fosse determinato dagli dèi. A ben vedere, infatti, tanto nell’Iliade quanto nell’Odissea si svolgono parallelamente due azioni: una nel mondo dei mortali e una nel mondo degli dèi, e a decidere quel che accade, in cielo e in terra, sono sempre e solamente gli dèi: come Apollo, che aveva mandato la peste con cui ha inizio l’Iliade; o come Zeus, che aveva mandato ad Agamennone un segno ingannevole per promettergli la vittoria e indurlo alla battaglia.
Ma se questo è il punto di partenza, ci sono nei poemi dei passaggi che segnalano lo slittamento verso l’idea che anche la volontà umana ha un ruolo nel determinare gli eventi: parlando del viaggio nel corso del quale Telemaco spera di avere da Nestore notizie del padre, Atena lo incoraggia dicendogli che i numi gli suggeriranno come comportarsi, ma qualcosa «penserai tu nel tuo animo» (Od., 3, 26 27). E quando grazie allo stratagemma del cavallo i Greci riescono a entrare a Troia, Elena è felice, e se ne rallegra perché, come dice, «l’animo s’era già volto a tornare indietro, in patria, e piangevo la colpa che Afrodite mi spinse a commettere…»(Od., 4, 260 264). Se non la fuga a Troia, la decisione di tornare dal marito dunque è sua, ed Elena la rivendica come tale. E ci sono anche passaggi nei quali l’umanità appare totalmente libera e capace di determinarsi, come quello nel quale Zeus rimprovera agli uomini di incolpare ingiustamente le divinità dei loro dolori. In realtà questi sono causati dai loro «folli delitti», tra i quali il dio cita quello di Egisto, l’amante di Clitennestra, che insieme a questa aveva ucciso Agamennone al ritorno dalla guerra di Troia. Gli dei, in quell’occasione, avevano mandato Ermes, il loro messaggero, a dirgli di non farlo. Ma Egisto non lo aveva ascoltato e aveva agito contro la moira, vale a dire contro il destino superiore, al quale l’uomo non doveva sottrarsi (Od., 1, 32 34.).
E per finire ci sono casi nei quali gli uomini sono capaci non solo di autodeterminarsi, ma anche di autocontrollarsi, come più di una volta riesce a fare Ulisse: una prima volta quando, chiuso nell’antro del Ciclope che aveva appena divorato due dei suoi compagni, avrebbe voluto d’impulso uccidere il mostro, ma lo aveva trattenuto il pensiero che se lo avesse fatto sarebbe sicuramente morto. Mai e poi mai lui e i compagni avrebbero avuto la forza di spostare la roccia con la quale il Ciclope, da lui accecato, aveva chiuso l’imboccatura del suo antro (Od., IX, 299-300). E poi, ancora, quando, tornato a Itaca ed entrato nella sua reggia in veste di mendicante, aveva scoperto che alcune delle sue ancelle lo avevano tradito, passando dalla parte dei proci. Anche in quel caso era stato tentato di reagire immediatamente, uccidendole, ma era riuscito a contenersi ricordando che, dopo aver subito oltraggi ancora peggiori dal Ciclope, si era salvato trattenendo i suoi impulsi e aspettando il momento in cui avrebbe potuto farlo grazie alla sua astuzia (Od., 20,10-23).
Questi episodi rappresentano il variare della percezione di sé dei greci: il primo passo della strada che li avrebbe condotti alla nascita della distinzione tra atti volontari e involontari e all’inizio della individuazione di alcune delle cause della involontarietà, quali la volontà degli dèi, la necessaria obbedienza a un ordine superiore, divino o umano, e la necessità determinata da una violenza fisica o psichica. E sulla base di questa distinzione si era affermato il principio che era colpevole solo chi aveva agito volontariamente, e che si rispondeva solo di quegli atti, come dimostra il comportamento di Ulisse quando, dopo aver sterminato i proci, punisce i suoi dipendenti infedeli. Ma solo quelli che hanno agito volontariamente: e quindi risparmia Femio, l’aedo che ha cantato per i proci, ma contro la sua volontà: come conferma Telemaco, era stato costretto a farlo dal loro numero e dalla loro tracotanza. Grazie alla conquista e alla consapevolezza della propria libertà dagli dèi e dal fato i greci avevano elaborato il principio della responsabilità morale e i concetti etici e giuridici tut tora a fondamento della nostra civiltà.
Questo testo è tratto dalla lezione
di Storia che l’autrice terrà a Milano
a Santa Maria delle Grazie
il 27 giugno alle 21,
nell’ambito del progetto ideato da Laterza e dedicato al «Potere degli antichi»