Erano sotterrati tra i rifiuti i segreti dell’Egitto romano
Così due studiosi inglesi trovarono i papiri di Ossirinco
di Paolo Mieli (Corriere 24/6/14)
Per i prossimi anni è programmata la pubblicazione di ben quaranta volumi degli Oxyrhynchus Papyri . Fino ad oggi ne sono già stati pubblicati settantotto, il primo dei quali nel 1898. Di che si tratta? Tutto ha inizio in una discarica. È in una montagna di rifiuti coperta dalla sabbia che si è avuto il più importante ritrovamento di preziosi papiri dell’Egitto. Ritrovamento che ha consentito una svolta nello studio della storia del mondo antico. È questo, cioè il fatto che fossero sepolti come immondizia, quel che ha più colpito Peter Parsons e che fa da filo conduttore di un suggestivo libro, La scoperta di Ossirinco. La vita quotidiana in Egitto al tempo dei Romani , che l’editore Carocci si accinge a pubblicare, in un’impeccabile traduzione e curatela di Laura Lulli. In quella discarica, che era rimasta coperta dalla sabbia per secoli e secoli, furono ritrovati a fine Ottocento «frammenti della letteratura greca classica, in particolare di opere altrimenti perse nella grande distruzione del Medioevo, e frammenti della letteratura cristiana delle origini, soprattutto di opere poi eliminate dal canone ortodosso». I rifiuti appartenevano al villaggio di el-Behnesa, centosessanta chilometri a sud del Cairo e quindici a ovest del Nilo. Fondata ai tempi di Ramses III nel XII secolo avanti Cristo, quella piccola città era stata poi, per mille anni — dai tempi di Alessandro Magno a quelli dell’arrivo dei musulmani, dal 350 a.C. al 650 d.C. (ma anche oltre) —, Ossirinco. Agli inizi del Medioevo vantava ancora un vescovo, trenta chiese, diecimila monaci, ventimila suore. Anche oltre, dicevamo, ben oltre la conquista araba dell’Egitto nel 642 d.C. Tant’è che testimonianze del 917 attestano che, all’epoca, in quel centro si producevano tende di broccato d’oro per il palazzo del califfo di Baghdad. Il declino vero e proprio iniziò molti decenni dopo, dal XIII secolo, allorché, sotto il dominio dei mamelucchi, la città cominciò a trasformarsi in un villaggio.
Ma al centro di questo libro c’è la Ossirinco greca. Per i Greci del III secolo a.C. l’Egitto «era un po’ come il Nuovo Mondo, una California delle opportunità». La città egiziana era nata sotto il regno degli ultimi faraoni, poi divenne una provincia persiana fino a quando fu «liberata» da Alessandro Magno nel 332, quando, conquistate l’Asia Minore e la Palestina, il re macedone attraversò il Sinai (tre giorni di marcia senz’acqua) e fece il suo ingresso in Egitto, dove fondò la città che avrebbe preso il suo nome: Alessandria. Alla sua morte (323 a. C.) l’Egitto passò a Filippo III, ma in realtà al comandante militare Tolomeo, che fondò una dinastia, quella dei Tolomei, che avrebbe governato il Paese per tre secoli, fino alla morte dell’ultima discendente, Cleopatra, nel 30 a.C. All’epoca vivevano in quel Paese trecentomila Greci assieme a sette milioni di egiziani. Tolomeo I si era fatto largo come generale e aveva oltre sessant’anni quando ottenne il titolo di sovrano, «solo di un grado inferiore a quello di un dio». Fu uno stratega assai acuto. Prelevò il corpo mummificato di Alessandro il Grande e lo fece seppellire nuovamente prima a Menfi e poi nella nuova capitale, Alessandria (e «fu un modo, questo, per rivendicare il diritto di ereditare il carisma del conquistatore del mondo»). Ai tempi di Tolomeo Alessandria, pur essendo una città greca, era adorna di sculture egiziane. Le iscrizioni geroglifiche presentavano Tolomeo con tutti i titoli tradizionali e gli attributi del faraone.
Ossirinco visse e prosperò poi a lungo. Allorché i Romani conquistarono l’Egitto, la cultura dei vincitori, scrive Parsons, «si faceva sentire qua e là: Ossirinco si era dovuta dotare di un campidoglio, di un tempio di Cesare e di diverse terme pubbliche». Non era la prima volta «che l’Egitto apparteneva a un impero più vasto, ma questo era un impero molto grande con un imperatore molto assente». I cittadini di Ossirinco affluivano in gran numero per celebrare le rare visite dell’imperatore; altrimenti continuavano «a pregare per lui e per la sua Eterna Vittoria, anche se molte di quelle vittorie erano conseguite a migliaia di chilometri di distanza, sul Reno o sul Danubio». Per sfamare gli abitanti della città di Roma si pagavano delle tasse; per fornire supporto alle operazioni belliche, contro la Persia o altre nazioni, potevano esserci requisizioni di bestiame. I dominatori romani non modificarono il sistema amministrativo che avevano trovato («e del resto non avrebbero avuto nient’altro con cui sostituirlo, dal momento che la Repubblica romana non si era dotata di strutture burocratiche su larga scala», precisa Parsons). In realtà l’impero, con il suo sviluppo, sotto la spinta del dispotismo sempre crescente e dell’urgenza di guerre totali, adottò la complessa burocrazia gerarchica di cui l’Egitto e altri regni del Vicino Oriente avevano fornito esempi precoci. Formalmente l’Egitto restò al di fuori da questo sistema fino a quando Diocleziano (divenuto imperatore nel 284 d.C.) non cominciò a «spingere per un’integrazione attraverso la quale l’impero ormai scricchiolante fu costretto ad una forzata uniformità».
Ossirinco all’epoca era ancora una città di prima grandezza. Alla fine del I secolo d. C., Plutarco «rifletteva sul mondo» dalla sua biblioteca a Cheronea, nel cuore rurale della vecchia Grecia: in Egitto, scriveva, «ai nostri tempi la popolazione di Cinopoli e la popolazione di Ossirinco si sono massacrate reciprocamente, in quanto gli abitanti di Cinopoli avevano mangiato il pesce sacro di Ossirinco e gli abitanti di Ossirinco avevano mangiato il cane sacro di Cinopoli». Segno, questo, che Ossirinco era anche una piccola potenza militare. Poi fu compiuto un passo ulteriore. Gli Egiziani (quantomeno i Greci d’Egitto) divennero nel 212 cittadini romani e in quello stesso anno un «egiziano» divenne, per la prima volta, membro del Senato romano. Nel III secolo dopo Cristo, Ossirinco fu denominata Città Illustre e Illustrissima, a dispetto della peste che aveva prostrato l’Egitto nel 253. Ossirinco fu tra le prime città a riprendersi. Intorno al 255 la città assume un maestro di scuola pubblico, imitando così le istituzioni culturali delle città più grandi. Dal 265 istituisce un «sussidio di grano», una razione gratuita destinata ai singoli cittadini, sul modello di quel che faceva Roma. Nel 283 costruisce una strada centrale del tipo di quella che hanno le città più importanti. Nel 284-286 assume un rilievo tale che il prefetto vi tiene udienza. Nel 273 fu addirittura scelta come sede dei giochi capitolini mondiali; «fu così che i cittadini di un borgo egiziano ospitarono il mondo e le sue celebrità, in occasione del primo festival mondiale capitolino quinquennale sacro e trionfante di teatro, atletica e corsa di cavalli che fosse tenuto in quell’epoca», fa rilevare Parsons.
In seguito «continuò a sopravvivere e a prosperare fino al Medioevo, mentre il mondo intorno era ormai completamente cambiato». L’impero romano pagano aveva poi, a partire dalla svolta di Costantino, ceduto il posto a quello cristiano, con la sua lingua e il suo alfabeto. La scrittura egiziana, ottocento segni, era di impedimento all’alfabetizzazione («un cinese non sarebbe d’accordo», osserva però Peter Parsons), mentre la semplicità dell’alfabeto greco rendeva questa lingua scritta molto più agevole; alla fine le antiche scritture egiziane si estinsero, per essere rimpiazzate nel III e IV secolo dopo Cristo da un adattamento dell’alfabeto greco, il copto. Gli Egiziani che avevano imparato il greco erano stati certamente più numerosi dei Greci che avevano appreso l’egiziano, persone di etnia egiziana potevano prendere i nomi greci, famiglie greco-egiziane potevano adottare nomi doppi, con un elemento tratto da ognuna delle due lingue.
I conquistatori romani avevano poi stabilito una gerarchia quasi ufficiale: al vertice della scala sociale c’erano i dignitari inviati da Roma per occupare le più alte cariche di governo; poi c’erano gli abitanti di quelle città (Alessandria, Naucrati, Tolemaide, più tardi Antinoupolis) che avevano mantenuto le istituzioni basilari di una classica città Stato; quindi le classi dirigenti delle capitali locali che fossero in grado di dimostrare la loro discendenza sociale privilegiata facendo riferimento a un registro stabilito ai tempi di Augusto; infine, il grosso della popolazione. Successivamente, ai tempi dell’Islam, si sarebbe imposto l’arabo. Ma con gli stessi effetti. L’Egitto «rimase sempre uguale, nella sua essenza: i campi e i contadini, le piene e la mietitura, l’eterno problema di come guadagnarsi il pane e — preoccupazione, questa, che ha accomunato i maghi pagani, cristiani e islamici — tenere gli insetti lontani da casa». Gradualmente la «Città Illustre e Illustrissima» si trasformò in un semplice villaggio.
Nel luglio 1798 Napoleone Bonaparte approdò in Egitto, portando con sé un esercito di soldati e una piccola armata (167 persone) di studiosi e artisti. Mentre l’esercito francese liberava il Paese dal potere militare in decadenza che lo controllava formalmente come una provincia dell’impero turco, gli scienziati conducevano ricerche sistematiche e disegnavano schizzi dei monumenti. L’intento politico della spedizione, ovvero attaccare l’impero britannico in India dalla porta posteriore, fallì: la sconfitta navale di Abukir tagliò fuori gli invasori dalla loro patria. Il generale corso lasciò infine l’Egitto nell’agosto 1799 per realizzare un colpo di Stato nel suo Paese, mentre le sue truppe furono battute e rimpatriate nel 1801. Così il Paese tornò sotto l’autorità del sultano e dei suoi viceré.
Sotto il profilo culturale, comunque, quella spedizione fallimentare diede luogo ad una svolta. Che ebbe quasi subito i suoi cantori. Gli splendidi volumi della Description de l’Égypte, dati alle stampe tra il 1809 e il 1826, gettarono le basi della moderna egittologia. Un passo ulteriore fu compiuto in Francia, il 29 settembre 1822, quando Jean-François Champollion lesse la sua Lettre à M. Dacier al cospetto dei saggi dell’Académie Royale des Inscriptions et Belles-Lettres. Champollion, grazie alla stele di Rosetta, riuscì a dimostrare che la scrittura geroglifica era prevalentemente fonetica, in quanto «la maggior parte dei segni rappresentava lettere o sillabe» e che la lingua che trasmetteva (come si sospettava) era la stessa di quella usata dai cristiani egiziani d’Egitto, oggi chiamata copto. Alla fine il codice era stato decrittato e così dal 1822 l’umanità fu in grado di leggere quelle iscrizioni e quei papiri. In seguito una spedizione di Champollion e Ippolito Rosellini fu interrotta dalla precoce morte, nel 1832, dello stesso Champollion. Ma i clamorosi risultati di quell’impresa, raccolti nei Monumenti dell’Egitto e della Nubia , furono dati alle stampe da Rosellini a Firenze tra il 1832 e il 1840. La spedizione di Carlo Richard Lepsius, inviato nel 1842 dal re di Prussia per registrare i monumenti dell’Egitto, produsse un ulteriore resoconto in tredici volumi, pubblicato nel 1849, che resta, secondo Parsons, «un’opera di riferimento».
Gli inglesi avevano vinto la guerra contro Napoleone, ma in Egitto furono i francesi a continuare a dominare. Quantomeno sotto il profilo culturale. Un intraprendente commerciante albanese di tabacco, Ali Mohammed, divenne a tal punto potente che il sultano fu costretto a nominarlo viceré nel 1805. Lui, Mohammed, e la sua discendenza governarono, prima come khedivè (viceré d’Egitto) e poi come re fino al 1953, anno della vittoria della rivoluzione nasseriana. Ma Ali Mohammed e i suoi successori non furono, quantomeno in principio, consapevoli del tesoro che custodivano. Nella prima metà dell’Ottocento, iniziò la stagione delle razzie. Un italiano, Giovanni Battista Belzoni, si servì di un ariete per entrare nella tomba di un faraone; nel 1836 il colonnello inglese Richard William Howard-Vyse fece ricorso alla dinamite per entrare in alcune camere inesplorate della Grande Piramide. Come collezionisti si distinsero l’italiano Bernardino Michele Maria Drovetti (in forza all’esercito francese), che portò a Torino gran parte di quel che aveva trovato, l’inglese Henry Salt e il console generale svedese-norvegese Giovanni d’Anastasi, che trasferì il suo «bottino» in parte a Leida e in parte al British Museum. Le cose cambiarono nel 1850, quando giunse in Egitto un giovane assistente curatore del Louvre, Auguste Mariette, nominato dal khedivè nel 1858 direttore generale di tutti gli scavi. Con Mariette, scrive Parsons, «ebbe inizio nel Paese una vera e propria archeologia sistematica; fu Mariette a concepire il Museo del Cairo, in modo tale che le antichità egiziane potessero avere una loro casa in Egitto… Solo Mariette aveva diritto di scavare e l’esportazione delle antichità fu dichiarata illegale».
Le cose cambiarono ancora una volta nel 1869, al tempo dell’apertura del canale di Suez, collegamento fondamentale tra Inghilterra e India. Erasmus Wilson espresse allora pubblicamente l’auspicio che la Gran Bretagna prestasse maggior attenzione all’archeologia egiziana. E un duo, formato dalla giornalista Amelia Edward e dallo studioso Reginald Stuart Poole, mise in atto la direttiva Wilson. Ciò fu reso possibile dal fatto che nel 1881 Mariette morì e il suo successore, Gaston Maspéro, si rese più disponibile nei confronti degli inglesi. Alla fine, nell’aprile del 1882, fu fondata una nuova società, Egypt Exploration Fund, massima istituzione dell’archeologia britannica, i cui direttori onorari furono Poole e la Edwards. E che è sopravvissuta fino ad oggi, sia pure con una leggera variazione di nome (Society al posto di Fund). Il 1° luglio del 1897 l’Exploration Egypt Fund istituì una sezione speciale chiamata Graeco-Roman Research Account, «per il ritrovamento e la pubblicazione delle vestigia dell’antichità classica e della prima epoca cristiana in Egitto». E fu questa sezione speciale ad attrarre i due giovani studenti oxfordiani protagonisti della nostra storia, Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt, che riportarono alla luce, da tumuli di spazzatura sepolta dalla sabbia nei pressi del villaggio di el-Behnesa, i resti di Ossirinco, la «città del pesce dal naso aguzzo». Nel 1895 i due decisero di mettersi alla ricerca di papiri egiziani negli antichi villaggi del Fayyum. Da quel momento trascorsero il resto della loro vita «come pionieri di un nuovo ramo degli studi classici: la papirologia». Si diffuse in seguito la leggenda che Grenfell era diventato cieco per aver violato il sito e aveva riacquistato la vista solo dopo che lo sceicco del luogo si era reso conto che i poveri abitanti del villaggio ottenevano un beneficio grazie ai salari pagati dagli scavatori. Grenfell dirigeva lo scavo, mentre Hunt si occupava di catalogare gli oggetti rinvenuti. «Controllare cento uomini che cercano papiri sotto un vento forte, mentre un miscuglio di sabbia e cenere colpisce il loro viso (questo è uno dei luoghi più ventosi dell’Egitto)», annotava Grenfell, «non è esattamente semplice; Hunt è stato molto occupato nell’ordinare e distendere i papiri, ma c’è ancora una lunga strada da percorrere e non ci sarà tempo per esaminare gran parte di questa regione». I due furono ancora a el-Behnesa negli inverni dal 1903 al 1907.
Le sei stagioni di scavi, che costarono circa quattromila sterline, portarono alla luce papiri che sarebbero stati stipati in settecento scatole, «il cui contenuto può essere stimato in mezzo milione di pezzi e frammenti». Opere di Tucidide, Platone, Isocrate, Pindaro, Euripide, liriche di Saffo, Alceo, Ibico, le invettive di Ipponatte, l’epica lirica di Stesicoro, le commedie di Menandro, le «elegie postmoderne» di Callimaco. Anche se la letteratura rappresentava forse solo il dieci per cento di ciò che si trovava tra quei rifiuti. Il resto apparteneva a un campo allora difficilmente esplorato, la vita e la società dei Greci in Egitto. Finché Grenfell «dal carattere più instabile», nel 1920 soffrì di un esaurimento nervoso che pose fine alla sua vita lavorativa. Hunt andò avanti fino al 1934; i suoi ultimi anni furono resi cupi dalla morte prematura dell’unico figlio. Ma «la loro collaborazione aveva ottenuto risultati straordinari». Dopo la scoperta del tesoro nascosto nella discarica, nel 1897, tre mesi di scavi fornirono papiri per riempire ben duecentottanta scatole. Subito ci si rese conto dell’importanza della scoperta: la «Review of Reviews» paragonò quel ritrovamento ai filoni d’oro rinvenuti nel Klondyke. Successivamente si aggiunsero spedizioni italiane (Ermenegildo Pistelli, Evaristo Breccia) che continuarono a scavare nei primi decenni del Novecento.
Ma torniamo alla fine dell’Ottocento e a Ossirinco. Quando, un secolo prima, era stata raggiunta dagli esploratori di Napoleone, Ossirinco era apparsa loro come «un sito reso pittoresco riconoscibile soltanto dalle palme, da una solitaria colonna antica e da una serie di cumuli». Proprio quei cumuli che avevano preservato, come si sarebbe appreso cento anni dopo, «l’intera storia della città, in una forma più piena di quanto possano fare le rovine di edifici e i monumenti». Il 29 luglio 1898 si poteva leggere sul «Times» di Londra che «la guerra ispano-americana sembrava quasi al termine, il caso Dreyfus era a un’altra svolta, il ginocchio del principe di Galles era stato trattato con i raggi X, nel cricket Rugby e Marlborough avevano pareggiato a Lord’s». Ma anche, nella rubrica «Libri della settimana», che era stato pubblicato il primo volume degli Oxyrhyrinchus Papyri . Cioè dei papiri che erano venuti alla luce, non da case o uffici, ma dalle discariche di rifiuti coperte da coltri di sabbia che erano intorno alla città. I due giovani scavatori di Oxford, Grenfell e Hunt, l’avevano rinvenuta mista a detriti dentro cumuli alti nove metri: tutta la vita di una città avvolta nei brandelli di scartoffie buttate via.
Fino a quel momento non c’era stata un’esatta percezione dell’importanza dei papiri. Pochi anni prima del ritrovamento a Ossirinco, uno studioso danese, Niels Iversen Schow, aveva acquistato un rotolo di papiro originale scritto in greco ad un mercato egiziano in cui gliene avevano offerti altri cinquanta, che poi, una volta rifiutati da Schow, gli abitanti del posto avevano bruciato per «godersi il fumo che ne emanava». E pensare che nel 1847 l’antiquario inglese Joseph Arden aveva acquistato a Tebe un notevole rotolo di papiro che conteneva diversi discorsi dell’oratore Iperide (392-322 a. C.); scoperta che aveva provocato a Londra notevole sensazione: nella primavera del 1851 Arden fece conoscere quel che aveva acquistato in una riunione tra intellettuali a casa di lord Londesborough e successivamente quel papiro fu messo in mostra nelle stanze della Royal Society of Literature. Ma fino a Grenfell e Hunt non si era capito fino in fondo quanto fossero importanti i papiri.
Quando Grenfell e Hunt cominciarono a scavare ad el-Behnesa nel 1897, quella che trovarono fu una «capsula del tempo» di un tipo molto speciale. Pompei conserva un’immagine della vita romana, così come si presentava nel giorno dell’eruzione del Vesuvio, fissata negli edifici e nei corpi di quelli che vivevano lì. Ossirinco offre l’opposto: non corpi o edifici, ma «il nastro cartaceo (un nastro gettato via dai suoi possessori) con la registrazione di un’intera cultura».
Ossirinco, scrive Parsons, «esiste ancora oggi come una città di carte gettate via, un paesaggio virtuale che possiamo ripopolare con persone vive e parlanti: il teatro è svanito, ma abbiamo ancora alcuni dei copioni usati dagli attori; le terme sono scomparse, ma possiamo ricostruire le generazioni degli inservienti che vi lavoravano; il mercato è sparito, ma conosciamo il banco dove si vendeva la zuppa, i mucchi di letame importati e i funzionari seccati che riscuotevano la tassa sui bordelli». Gli abitanti morti da secoli «di cui non abbiamo né ritratto né pietra tombale, comunicano con noi attraverso i loro documenti; di alcuni sappiamo abbastanza per scrivere una soap-opera». E alla fine la loro memoria almeno «sopravvive proprio per una strana ironia della sorte, grazie a quei materiali scritti che essi avevano gettato via». Strani percorsi della storia. Che talvolta passano per una discarica.