Dibattito sul #cyberbullismo
Perché la legge non funziona
di Guido Scorza (Repubblica 22/9/16)
Non sarà «la più stupida legge censorea nella storia europea» come l’ha definita, nei giorni scorsi, Cory Efram Doctorow, giornalista, scrittore e blogger canadese, ma è difficile negare che la proposta di legge intitolata “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo” ed approvata martedì dalla Camera dei Deputati rappresenta un pessimo esempio di come dovrebbe essere scritta una legge o, se si preferisce, un ottimo esempio di cosa una legge non dovrebbe mai prevedere.
La legge nata con le migliori intenzioni e con il nobile obiettivo di contribuire a prevenire e reprimere un fenomeno che ogni anno semina morte e dolore nel nostro Paese come nel resto del mondo, infatti, nel corso dei lavori parlamentari, emendamento dopo emendamento, ha finito con il trasformarsi in un capolavoro di retorica e ipocrisia istituzionale. Una legge inutile nel migliore dei casi, perniciosa nel peggiore.
È un giudizio severo che merita qualche spiegazione.
Il punto di partenza è che la legge aggiunge poco o niente alle regole già in vigore. Non serve, infatti, una legge, ma basta il buon senso a suggerire a chi ritenga di essere vittima di una condotta di cyberbullismo di rivolgersi al gestore della piattaforma attraverso la quale la condotta è posta in essere per chiedere che vi ponga fine, rimuovendo o bloccando il contenuto incriminato. E, egualmente, non serve una nuova legge per dire che se la condotta in questione rientra nella competenza del Garante per la privacy, chi ne è vittima può rivolgersi a quest’ultimo per chiedere tutela e giustizia.
Né si avvertiva l’esigenza di istituire presso la presidenza del Consiglio dei ministri un ennesimo tavolo tecnico — questa volta dedicato al contrasto a bullismo e cyberbullismo — attorno al quale chiamare a raccolta una pletora di rappresentanti di un elenco infinito di ministeri, enti ed associazioni ai quali affidare il compito di varare un “piano di azione integrato” ed un “codice di regolamentazione”. E neppure serviva una nuova legge per programmare “campagne informative di prevenzione e di sensibilizzazione” o per chiedere al ministro dell’Istruzione di presentare, ogni anno, una “relazione sugli esiti delle attività svolte dal tavolo tecnico”. Per non parlare dell’inutilità di una legge per costituire “un comitato di monitoraggio” con il compito di “identificare procedure e formati standard per l’istanza” con la quale le vittime di cyberbullismo potranno chiedere ai gestori delle piattaforme la rimozione dei contenuti incriminati.
Ma l’aspetto più difficile da digerire è che nessuna di queste iniziative — che servisse o meno una legge per dar loro vita — appare davvero determinante per prevenire e combattere il cyberbullismo. Ed è allora difficile respingere il dubbio che si sia voluta scrivere e varare una legge solo per alleggerire la propria coscienza e poter raccontare a se stessi — e magari ai propri elettori — che si è fatto ciò che si è potuto per difendere i più deboli. Un sospetto di ipocrisia istituzionale avvalorato dalla circostanza che ammonta appena a 220 mila euro per circa 41 mila scuole — ovvero poco più di 5 euro a scuola — lo stanziamento previsto per le iniziative di contrasto al cyberbullismo.
Non si può dichiarare guerra — specie ad un fenomeno tanto dilagante e subdolo — senza soldi e risorse. Peccato che si sia scelto di lasciar annegare buone intenzioni e nobili obiettivi in un mare di parole, principi e proclami solenni e di investire su regole impotenti davanti alle dinamiche liquide della Rete anziché ragionare con i gestori delle grandi piattaforme nazionali ed internazionali di usabilità, ergonomia ed accessibilità degli strumenti di segnalazione delle condotte illecite.
L’autore è avvocato e docente di Diritto delle nuove tecnologie