Dall’arte africana al Partenone quando è giusto #restituire
di Maurizio Bettini (Repubblica 1/12/18)
Il dibattito innescato dall’annuncio di Macron va esteso ai tesori greci
Recentemente il presidente Macron ha annunciato di voler restituire al governo del Benin 26 statue reali di Abomey sottratte dall’esercito francese nel 1892 e attualmente custodite al Musée du Quai Branly. Primo gesto concreto del suo impegno verso una nuova “politica di scambio” con i paesi di provenienza relativamente al patrimonio artistico e culturale, a suo tempo sottratto ai legittimi possessori, e ora in possesso della Francia. Dato che le opere d’arte africane conservate nei musei francesi ammontano a circa 90mila, 70mila delle quali solo al Quai Branly, la proposta ha suscitato un dibattito molto vivace: restituzione totale?
Parziale? Temporanea? E poi, c’è da fidarsi delle strutture dei paesi riceventi? In linea di principio la restituzione costituisce un’azione eticamente ineccepibile, in questo modo però (si dice) la Francia verrebbe privata della possibilità di conoscere arte e cultura di popoli lontani, con un danno che paradossalmente si ritorcerebbe anche contro costoro. Prima però di chiederci se e perché queste opere dovrebbero essere restituite, sarebbe opportuno chiedersi perché noi occidentali ce le siamo andate a prendere.
Per la verità all’inizio non le abbiamo affatto prese, anzi. I missionari portoghesi che “evangelizzarono” la Guinea definirono le immagini dei locali col nome di “fetichos”, ossia fantocci di magia, e come tali si preoccuparono soprattutto di distruggerli. In seguito, con la nascita dell’antropologia, idoli, immagini, artefatti delle popolazioni “altre” vennero importati in Europa. Fra Otto e Novecento artisti e teorici vollero vedere nelle produzioni dell’“arte negra”, com’era chiamata, una fonte di ispirazione per la creazione contemporanea: quasi che i “feticci” distrutti un dì dai missionari si fossero mutati in un’epifania delle arti delle origini. Oggi però di “arte negra” non parliamo più. Al di là di questo, però, ci si è resi conto di qualcosa di ancor più importante, ossia che queste opere acquisiscono pienamente senso solo se reinserite nel proprio contesto culturale: fatto di gesti, formule, linguaggi, ritmi, azioni. Ecco dunque perché le opere di “arte negra” delle nostre collezioni vanno restituite non tanto, o meglio non solo, all’entità statale che ne è proprietaria, in una prospettiva “patrimoniale”; ma debbono essere soprattutto restituite alle “culture” entro le quali sono nate e che sole permettono loro di esprimere pienamente il proprio significato.
Ciò detto, questo stesso ragionamento potrebbe essere applicato ad esempio ai marmi del Partenone, conservati al British Museum? In una prospettiva patrimoniale sì, perché alla Grecia queste opere furono sottratte. Ma in una prospettiva di restituzione culturale? Dalla creazione di quei marmi sono passati 2.500 anni e da allora, si dice, la cultura greca è entrata a far parte a pieno titolo dell’intera tradizione occidentale. In un certo senso Fidia è come Omero o Platone, si dice, ormai appartiene a tutto l’Occidente, non avrebbe senso attribuire alle sue opere un certificato di cittadinanza.
Questo discorso però implica un sofisma da cui è bene guardarsi.
L’appropriazione di Omero o Platone è avventa attraverso un medium, la scrittura e poi la stampa. In questo senso è lecito dire che l’Odissea e il Simposio appartengono ormai a tutti — ossia a chiunque ne legge una copia o ne fa rivivere la presenza. I marmi del Partenone, invece, non sono simulacri, sono oggetti originali: costituiscono un «segno delle proprie origini», come diceva Umberto Eco. Per questo si può, anzi si deve dar loro un certificato di cittadinanza. Senza contare che, al momento in cui i marmi vennero portati in Inghilterra, paradossalmente gli europei non pensarono che quelle opere d’arte le sottraevano “davvero” alla Grecia. Per il semplice fatto che ai loro occhi i greci (di allora) non erano dei “veri” greci, quelli di Achille o di Socrate. Al contrario, inglesi e tedeschi si erano convinti di essere loro i “veri” greci. È difficile non pensare che simili atteggiamenti — in aggiunta al potere coloniale che gli europei erano in grado di esercitare — non abbiano contribuito a giustificare ai loro occhi le razzie che compivano in Grecia. Ma oggi?