Da #Socrate a N#ash. La #matematica della bontà
La teoria dei giochi fornisce una base scientifica all’intellettualismo etico del filosofo ateniese, dimostrando il primato della ragione cooperativa
di Franca D’Agostini (La Stampa 1/6./5)
La morte del grande matematico americano John Nash dovrebbe stimolare una riflessione più allargata sul significato filosofico del famoso «equilibrio di Nash». Gli sviluppi della teoria dei giochi sulla base della scoperta dell’equilibrio in questione hanno avuto una sempre più pronunciata accentuazione etica, anzitutto a partire da Amartya Sen, e hanno portato a trasformazioni profonde nella concezione della «razionalità collettiva», come spiega Paul Weirich in Collective Rationality (Oxford University Press).
Ma l’aspetto più interessante dal punto di vista filosofico è che le conseguenze della teoria costituiscono una dimostrazione inaspettata di quel che in filosofia è stato chiamato intellettualismo etico, o anche utilitarismo socratico. Si tratta, in breve, dell’implicazione da intelligenza a bontà, vale a dire: chi è intelligente è buono. Il che non vuol dire che chi è buono è intelligente, o, peggio, che solo gli intelligenti sono buoni, ma piuttosto che chi non è buono non è intelligente, non sa o non ha capito qualcosa. In altri termini: il malvagio intelligente non esiste, è un’assurdità logica e pratica.
Il dilemma del prigioniero
Il risultato sorprendente della teoria dei giochi è che la tesi socratica (di solito liquidata sbrigativamente come una insensatezza intellettualistica) viene confermata a livello matematico. Il dilemma del prigioniero, il grande paradigma della choice theory di cui Nash è stato maestro, prevede (in una delle moltissime versioni) che vi siano due prigionieri sottoposti alla scelta se confessare o non confessare: se entrambi confessano tradendo il proprio compagno, sconteranno entrambi tre anni di prigione; se confessa solo uno dei due, il traditore sconterà un anno e l’altro quattro; se entrambi non confessano, ne sconteranno solo due. Dal punto di vista dell’immediato interesse individuale, conviene tradire (nella peggiore delle ipotesi si scontano tre anni, nella migliore solo uno). Dunque entrambi i prigionieri confesseranno, realizzando così il celebre «equilibrio». Però in questo modo i due prigionieri saranno inchiodati alla soluzione mediocre tre-tre, mentre le opzioni migliori (solo un anno, solo due) verranno a priori scartate. Da un punto di vista più ampio e più raffinato, è chiaro che non confessare è la scelta migliore, e se i prigionieri se ne rendessero conto, dovrebbero adottarla.
L’interesse dell’altrocome parte del proprio
Il dilemma ha dunque una semplice soluzione, che può essere così espressa: tutti, ragionando nei termini del proprio esclusivo interesse, ottengono un benessere mediocre, e inferiore a quello che otterrebbero se tenessero conto degli interessi degli altri e della collettività. La società che si forma a partire dall’interesse personale non è economicamente «ottima» (nel senso di Pareto). La società ottimale si modella invece sul «principio di cooperazione», che ci dice di prendere decisioni sulla base dell’intersezione dell’utile proprio e altrui. Amartya Sen ha mostrato che proprio questa era l’intuizione di Adam Smith. Assumendo l’interesse dell’altro come parte del proprio, l’ottimo è a portata di mano: la società e gli individui diventano economicamente felici.
Naturalmente il discorso non si ferma qui, e ci sono rischi e perdite nel primato della cooperazione. Ma l’idea di base è semplice: i fallimenti della cooperazione nei giochi sociali (siano o meno apertamente giochi «di coalizione») sono dovuti a un difetto di joint rationality, come dice Weirich. Chi è malvagio non può, matematicamente, essere intelligente.
È evidente allora il legame con il socratismo. Socrate (per quel che ne sappiamo) dimostrava la scarsa moralità dei sofisti, la loro scarsa considerazione del bene e della «cura della propria anima», ma dimostrava anche (e ciò viene di solito dimenticato) il loro scarso acume dialettico. Si dimostrava dunque l’idea del primato intellettuale del bene: un’idea intorno a cui gira tutta la tradizione filosofica (e che è tra l’altro l’idea di base delle imprese che chiamiamo scienza, giustizia, politica), ma che viene spesso dimenticata, o tradita.
Un calcolo che diventabenessere collettivo
Se ricordiamo quanto spesso figurano le espressioni «intelligenza diabolica», o «genio del male» nella nostra lingua, ci accorgiamo che non siamo affatto inclini ad accettare il principio socratico. Se ricordiamo che la nozione di razionalità è stata correlata sistematicamente alla nozione di pensiero strumentale – vale a dire: «è razionale chi agisce in funzione del proprio esclusivo interesse» -, siamo pronti a registrare la sfortuna del socratismo, il suo svilimento all’esortazione dell’anima bella, che dice «siate buoni» solo per essere giudicata buona essa stessa. Ma l’intellettualismo etico non è questo. È invece il fondato collegarsi degli interessi degli individui all’interesse della collettività. Non è l’altruismo narcisista di cui ci parla Nietzsche, ma un livello superiore di calcolo, un calcolo che diventa benessere collettivo.
L’analisi di Nash ha fornito lo sfondo matematico alla teoria, confermando che Socrate non aveva torto. Ma ha fatto anche un passo in più. Sappiamo infatti che Socrate dimostrava l’errore dei sofisti, ma solo per via negativa; confutava cioè la ragione strumentale, ma non dimostrava il primato della ragione cooperativa. Il principio di Nash dimostra l’argomento positivo: che la razionalità cooperativa ha un oggettivo primato, e la moralità non è per nulla un affare di emozioni, o di opinioni.