Da Aristotele a Orwell tutta la nostra parte bestiale

Se per la concezione cristiana siamo agnelli, secondo Hobbes diventiamo lupi e solo una belva più feroce riesce a proteggerci

Perché, tra filosofia e letteratura, non possiamo ancora fare a meno di paragonarci agli animali

di Roberto Esposito (Repubblica 10/11/14)

Se c’è una questione della quale non siamo mai venuti a capo è quella dell’animale. Eppure è quella che forse più di ogni altra dovrebbe riguardarci, dal momento che noi stessi siamo animali. Per giunta politici, come ha per primo spiegato Aristotele. Ciò su cui abbiamo invece centrato l’attenzione è la nostra superiorità di specie. Chiederci se l’animale parla, pensa o soffre, lo pone nella nostra prospettiva, fissandolo alla sua mancanza rispetto a quanto noi invece abbiamo. Mentre noi siamo nella storia, che possiamo mutare, egli resta inchiodato ad un ambiente naturale che non può eccedere. Perciò l’animale vive, ma non esiste; crepa, ma non muore, come ritiene Heidegger affermando che è “povero di mondo”, rispetto a noi che, soli tra le specie viventi, ne siamo costruttori.

Questi interrogativi, già posti in un memorabile libro di Derrida, L’animale che dunque sono, curato da Gianfranco Dalmasso per Jaca Book, tornano adesso in tre saggi recenti. Il primo è di Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità ( Laterza), dove tale genitivo è situato sul margine che allo stesso tempo ci assimila e ci distingue dalla nostra alterità. La cecità sull’animale è una cecità su noi stessi. Mentre lo imprigiona nel nostro sguardo, ci impedisce di cogliere ciò che davvero siamo, la nostra medesima forma di vita. La distanza metafisica che poniamo tra noi e lui è la stessa che incidiamo in noi stessi, separandoci dalla nostra parte corporea. L’esito di questa “macchina antropogenica” è l’abisso scavato nei confronti del mondo animale. Ma anche la rinuncia alla corporeità, relegata in una condizione inferiore e sottomessa alla nostra parte propriamente personale. Tale esclusione non ha solo un rilievo filosofico ed etico. Essa ha sempre esercitato un potente effetto biopolitico, o zoopolitico, come lo definisce Bruno Accarino in Zoologia politica. Favole, mostri, macchine ( Mimesis). L’infinita differenza di rango tra uomo ed animale è sempre servita a discriminare alcune tipologie umane, assimilate ad animali, per schiacciarle in una condizione subalterna. Di procedure di bestializzazione dell’uomo ne abbiamo conosciute tante. Schiavi, barbari, selvaggi, sono tutte stazioni di un unico percorso che ha costruito il potere di alcuni uomini su altri, ridotti a og- getto di asservimento, deportazione, sterminio. Le stesse metafore animali, di cui è piena la nostra tradizione culturale, sono state usate, e rovesciate, in relazione agli scopi di volta in volta prefissi. Così la favola di La Fontaine del lupo e dell’agnello è stata di continuo riscritta spostando la linea di separazione tra i due protagonisti. Se per la concezione cristiana gli uomini possono diventare tutti agnelli, sottomessi alla cura del pastore di anime, per Hobbes, sono tutti lupi, tanto che, per proteggerli, è necessario convocare un altro, più minaccioso, animale, il mitico Leviatano.

Se la tradizione umanistica istituisce un limite insuperabile tra storia umana e natura animale, già con Cartesio le bestie vengono considerate macchine viventi, destinate al servizio dell’uomo. Ma tale prospettiva escludente sul mondo animale non ha mai potuto del tutto cancellare un altro sguardo, più profondo, capace di cogliere nella differenza un elemento comune. Ciò consente non solo un’animalizzazione dell’uomo, ma anche un’umanizzazione dell’animale. Basti pensare al Centauro di Machiavelli, ai cavalli di Leonardo o, in ambito letterario, all’assimilazione fatale che unisce il destino di Achab a quello della balena in Moby Dick.

L’immagine dell’animale, insomma, volta a definire la nostra identità per contrasto, non ha mai cessato di insidiarla. Tanto più quando non corrisponde a una singola bestia, ma a un insieme indistinto come una mandria, un branco, uno sciame. Allora l’animale, più che rassicurarci con la sua diversità, c’inquieta ed ossessiona. Si pensi al film Gli uccelli di Hitchcock, quando il loro improvviso e malefico turbinio invade lo schermo, lacerando la visione. Esso, prima ancora che impaurirci, crea un disturbo nel nostro apparato percettivo, mettendolo a contatto con qualcosa d’incomprensibile. È un’esperienza non lontana dall’inquietudine che l’avvento della società di massa ha prodotto in un mondo politico ancora governato da logiche elitarie. E del resto non corre un rischio del genere perfino la democrazia, quando prevale un’indifferenziata spinta populista? Era quanto sosteneva Nietzsche paragonando, da un punto di vista aristocratico, la democrazia a un gregge che richiede di essere guidato da capi superiori. Anche se La fattoria degli animali di Orwell rappresenta, più giustamente, una metafora del mondo totalitario.

Ma se non possiamo disfarci della nostra parte animale, se perfino la nostra organizzazione politica ne risulta coinvolta, tanto vale assumerne, oltre i rischi, anche le potenziali risorse. È quanto appunto ci suggerisce nel suo libro, Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione (Mimesis), Roberto Marchesini. Egli auspica un doppio movimento. Di immedesimazione, in ragione della radice comune che ci lega all’animale. E di distanziamento, quale riconoscimento della sua specifica identità. L’animale non è l’abisso ancestrale da cui proveniamo e da cui dobbiamo violentemente strapparci, ma ciò che anche, da sempre, siamo. Non la sagoma minacciosa che ci guarda dal fondo del passato, ma il profilo imprevedibile che si delinea nel nostro futuro. Oggi, nel regime biopolitico che tutti viviamo, l’antica formula aristotelica va ripensata in senso postmetafisico. Essere animali politici significa che ciò che è in gioco nella politica è la stessa vita biologica: la nascita, la morte, la salute, il lavoro, la migrazione saranno sempre più al centro di ogni relazione e di ogni conflitto politico.

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