Costi della politica: gli antichi greci non stavano meglio
di Armando Torno (Corriere della Sera 26/5/14)
Nell’antica Grecia c’erano banche. Non come le nostre, comunque di tre generi: private, pubbliche e sacre. Le prime due possiamo immaginarcele, per la terza dobbiamo recarci a Cos, all’inizio del I secolo prima di Cristo: tre chiavi erano necessarie per l’accesso al tesoro, due delle quali in mano religiosa. E le tasse locali? Anche in tal caso non si badava a delicatezze. Si aggiungevano ai contributi individuali e a una fiscalità capillare: vi erano imposte dirette sulla produzione agricola, sulle persone, sul commercio all’ingrosso e su quello minuto, sulle compravendite locali, sul culto. Inutile continuare, ché sembra di inventariare i balzelli dell’Italia odierna. Le notizie le abbiamo ricavate dal ponderoso volume Les finances des cités grecques , frutto di mezzo secolo di lavoro di Léopold Migeotte (professore all’Università Laval, in Québec), appena uscito da Les Belles Lettres (pp. 778, e 59).
Mettendo a profitto i testi di filosofi, letterati e storici greci, soprattutto la documentazione epigrafica, Migeotte ha scritto un libro rivelatore di un mondo avvolto dal mito, in cui si formano i nostri modelli. Ricalcola, tra l’altro, quali erano i costi di una festa o quelli per un concorso o per la celebrazione dei culti (acquisti di animali e loro nutrizione sino al sacrificio), le cifre necessarie per affrontare una guerra o per difendersi da un attacco nemico (tra l’altro i casi di Sparta e Siracusa); né manca un capitolo sui costi della politica. Per esempio, ci fu un aumento retributivo per i cittadini ateniesi che svolgevano funzioni civiche all’inizio della guerra del Peloponneso (anni dal 431 al 404 a.C. circa) che restò valido sino ai tempi di Aristotele (morto nel 322 a.C.): Migeotte ricorda che la spesa annuale dovette essere tra i 22 e i 37 talenti. In quel periodo un talento equivaleva alla quantità di argento necessaria per pagare l’equipaggio di una trireme per un mese.
Sono inoltre evidenziati i costi della democrazia ateniese. Il suo funzionamento esigeva spese regolari, «per l’acquisto del materiale di scrittura, la remunerazione dei secretari, dei sotto secretari, degli araldi e di altri impiegati subalterni» (in buona parte schiavi). Senza contare i viaggi degli ambasciatori, arbitri e ispettori o, tra gli altri, i decreti onorifici. «Fabbricazione e incisione delle steli, salario degli addetti e onoreficenze concesse ai beneficiari — nota Migeotte — possono essere valutate a 10 o 20 talenti per anno nel IV secolo». E anche i lavori pubblici avevano un’incidenza a seconda delle tendenze, tenendo conto che iscrizioni e statue potevano subire variazioni o sostituzioni. Pericle ha stimato una spesa di 3.700 talenti per i Propilei, altri lavori dell’Acropoli e l’assedio di Potidea.
Lo studio di Migeotte assegna a ogni cosa il suo prezzo nell’ambito del «miracolo greco». Riesce a farci guardare nella tenuta dei libri dei conti o tra le spese di un processo. È un metodo quantitativo che fa capire come quegli antichi problemi siano simili ai nostri. Del resto, anche Peter Brown ha seguito analoga via per focalizzare con i parametri di ricchezza e povertà lo sviluppo del cristianesimo tra il 350 e il 550 della nostra era. La sua opera, pubblicata due anni fa da Princeton University Press, è ora tradotta da Einaudi: Per la cruna di un ago (pp. 894, e 36). In tal caso coloro che dispongono di mezzi finiscono sotto osservazione: è più facile al cammello passare per la cruna dell’ago che a un ricco entrare nel regno dei cieli. Ma sia nell’antica Grecia che con il cristianesimo i soldi recavano buon umore. E c’è stato sempre chi ha indicato al ricco scorciatoie per soggiornare benissimo anche nell’aldilà.