#Classici
Quanto è #dionisiaco questo #Apollo
di Pietro #Citati (Repubblica 1/12/17)
Scalo a Delfi, nel cuore della religione ellenica e del culto di Febo. Raccontato da un grande viaggiatore nella sua “Guida alla Grecia”: Pausania
In questi giorni viene pubblicato il decimo e ultimo libro della Guida della Grecia di Pausania, benissimo curato da Umberto Bultrighini e Mario Torelli (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, pagg. 560, euro 35). Esso è dedicato alla Focide, e specialmente a Delfi, cuore della religione e della civiltà greca.
Pausania nacque nella parte occidentale dell’Asia Minore, e visse nella seconda parte del Secondo secolo dopo Cristo.
Per lui, erano tempi tristi. La vera Grecia era un ricordo. I luoghi famosi spopolati: molte città abbandonate: le regge carbonizzate, le tombe sconvolte, le colonne dei templi a metà abbattute; Delfi priva, o quasi, di oggetti preziosi, sebbene gli edifici fossero gli stessi di un millennio prima. Tra il 118 e il 125 dopo Cristo, l’imperatore Adriano era stato arconte delfico, cercando di riportare quella terra spopolata all’antico splendore. Tutto esisteva sotto il segno di Roma: Pausania pensava che Roma rispettasse o addirittura venerasse la Grecia, che aveva così influenzato la sua storia e i suoi pensieri. Amo molto Pausania. Senza leggerlo, non possiamo conoscere la Grecia: dobbiamo portarlo con noi, nei nostri viaggi ad Atene e nel Peloponneso. Era documentatissimo: aveva viaggiato molto, in Siria, Palestina, Egitto, Roma, Campania, con fonti e informatori eccellenti. Narra benissimo, con in mente il grande modello di Erodoto. Quando abbandona la sua abituale concentrazione, scrive con piacevolezza ed incanto. Percorre le strade principali della Grecia, quelle secondarie e minime, a volte scegliendo tradizioni e itinerari sconosciuti. Verso il mito, il suo atteggiamento è molteplice.
Talora è assolutamente certo: venera Omero senza discussioni ; come dicono le Peliadi, «Zeus c’era, c’è, ci sarà». Coltiva tutto ciò che è oracolare: i misteri eleusini «più di tutti i misteri di pietà religiosa»; i riti, gli eventi singolari, i prodigi, i fatti dietro i quali sospetta la presenza degli dei. Ma, a volte, rivela un profondo scetticismo: cerca di essere scrupoloso, preciso, minuzioso (assai più di Plinio il vecchio). Ama la verità (o ciò che crede essere la verità): ma non racconta tutto, perché vuole scegliere o è pieno di dubbi.
Alla fine sembra incerto, inquieto, perplesso: questo non è l’ultimo motivo del fascino che esercita su di noi. Come Erodoto, ama la storia totale. Non gli basta narrare i fatti storici e religiosi della Grecia, perché all’improvviso racconta di Cartagine o della Corsica. Coltiva il piccolo, il minimo, ma anche le grandiose cosmogonie, convinto che l’onfalo di Delfi si trovi al centro dell’universo. Descrive con competenza i fatti tecnici: specialmente le scoperte che, ai suoi tempi, si erano perdute.
Invece di parlare ancora una volta di cose conosciute, insegue quelle poco note o in apparenza insignificanti, persuaso che il mondo sia, nella sua essenza, incomprensibile e irraggiungibile.
Ma non si perde mai nei dettagli: vuole che la sua opera, dal primo al decimo libro, sia una totalità.
Sullo sfondo, per lui come per ogni greco, stanno il destino e gli dei, i quali si identificano con il destino – più, forse che nell’Iliade: «Il destino che assegna in egual misura la buona e la cattiva sorte».
Ma biasima coloro che credono di vedere dovunque gli dei, sia pure in sogno: ciò spetta, semmai, ai sacerdoti. Gli dei non si rivelano volentieri. Pausania indugia su molti temi: Eracle, Achille, Neottolemo, Dioniso, Iside, le Muse, Ulisse, Olimpia, la fonte Castalia, la fonte Cassiopide, Edipo, il quale, forse, lo affascina più di ogni altra figura.
Pausania non ha vere antipatie o veri odi per nessuno – tranne, forse, per Sparta: pensa che la guerra del Peloponneso sia stata esiziale per la Grecia. Parla di Sifni e dei suoi meravigliosi tesori delfici: «L’isola dei Sifnii aveva molte miniere d’oro, e il dio insegnò loro di riservare a Delfi la maggior parte delle entrate; essi allora costruirono il tesoro e cominciarono a versare la decima.
Ma quando per la loro insaziabilità tralasciarono di versarla, il mare allagò e fece sparire le miniere».
Siamo a Delfi, dove la figura principale è Apollo. Ecco il dio atasthalos, temerario, sfrenato, empio, accecato: egli non conosce nessuna delle verità che proprio da lui vennero chiamate apollinee; la serenità, il rispetto per la legge, l’armonia, la moderazione. Il dio che avrebbe presieduto alla misura della Grecia pecca di dismisura. Forse era necessario un dio violento, sfrenato, peccatore, assassino, per diffondere sulla terra l’equilibrio nella morale, il rispetto del limite, la quiete dello spirito, il gesto che pacifica e contiene. A Delfi Apollo incontra la Dracena: «Un mostro vorace, grande, selvaggio», figlio della Terra, che ne condivide il santuario oracolare, divorando uomini e animali. Con una freccia Apollo colpisce la Dracena, che cade a terra ansando e contorcendosi, e gettando un urlo soprannaturale, finché muore con un soffio sanguinoso. Il corpo imputridisce, dando il nome al luogo, Pito, e al dio, Apollo pitico.
Apollo aveva obbedito a un ordine di Zeus, che voleva costruire a Delfi il suo santuario. Eppure commette una colpa: anche gli dei commettono colpe: ha paura; in un luogo che dal suo nome, è chiamato Phobos, terrore, vien assalito dall’angoscia di sentirsi impuro e dalla follia; contamina e diffonde attorno a sé la contaminazione, come all’inizio dell’Iliade. Fugge. Si rifugia nella valle di Tempe, oppure espia presso gli Iperborei, una popolazione ai confini del mondo.
Poi torna a Delfi, incoronato di alloro, tenendo nella mano un ramo di alloro. Come dice Eraclito, Apollo non parla in modo diretto, o in epifanie, ma attraverso segni, o i versi della Pizia, “l’ape delfica”.
Pausania ama le digressioni. La più vasta e drammatica è dedicata all’invasione in Grecia dei Celti (Galati) nel 279-277 prima di Cristo. L’oracolo rispose ai Delfi, terrorizzati, che egli si sarebbe preso cura di sé stesso e di loro.
Nella prima invasione i Celti si arrestano perché sono pochi. Nella seconda invasione Brenno e i Celti attaccano i Greci con una rabbia e un furore non accompagnati dalla ragione.
Pausania li esecra, specialmente perché non danno sepoltura ai morti in battaglia. Mai si erano sentite atrocità simili o simili furori; i Celti bevevano il sangue delle donne e dei bambini. Ma nessuno di loro tornò salvo in patria. Il decimo volume della Guida della Grecia finisce quasi all’improvviso, con la storia del santuario Asclepio a Naupatto.
Non sappiamo con certezza se l’opera sia o no incompiuta. Ma, probabilmente, Pausania finisce così, con una conclusione in minore. Vuole imitare Erodoto. Gli piace moltissimo questa conclusione che conclude e non conclude, lasciando l’opera aperta all’infinito: come, forse, sono tutti i grandi libri. Noi torniamo a leggere e risaliamo al principio, provando una specie di nostalgia.
Contempliamo di nuovo il più bel paesaggio della Grecia che abbiamo mai conosciuto.