CATULLO IN UN #ROMANZO
Corriere della Sera, Giorgio Montefoschi
13 settembre 2012
ELZEVIRO
Gli #amori di #Catullo provinciale a #Roma
Il racconto onirico di Alessandro #Banda
Un uomo giovane, ha appena trent’anni, una sera d’estate, siede sulla riva del Lago di Garda: contempla la superficie dell’acqua, i monti. Tra sé e sé, dice: «Solo chi ha vissuto una sera d’estate in riva a un lago sa cos’è la beatitudine. Forse la stessa degli dèi, che, lontani nelle loro sedi poste negli spazi fra i mondi, liberi da cure e affanni, sentono sciogliersi nella bocca il sapore immortale dell’ambrosia». L’uomo, di nobile famiglia – alle spalle ci sono le splendide terrazze della villa di suo padre – è giovane, e anche vecchio; vecchissimo. Potrebbe avere novant’anni, per le ferite che porta impresse nel cuore e per come conosce l’atroce sorgere del tempo. Ora è estate, infatti: ma, in quel lago che la sua smisurata fantasia trasforma nel mare greco solcato dalla nave degli Argonauti, basta un lieve soffio di vento – neppure quello, basta stare immobili e chiudere gli occhi, e si sente che l’estate al suo culmine è già finita, e verranno l’autunno e l’inverno. Perché tutto finisce: finiscono le stagioni, finiscono gli anni, finisce l’amore. E noi, nonostante il nostro smisurato desiderio di possesso (di tutto: dei corpi, dei luoghi, delle stagioni, degli anni, delle cose che si possono possedere e di quelle che vorremmo possedere, benché inconoscibili), non soltanto al termine della vita, al termine di ogni giorno, di ogni momento che della vita rappresenta l’inizio e lo spegnersi della vita – il suo percorso – non possediamo nulla. Certo, abbiamo amato, magari pazzamente, ci siamo lasciati trascinare ciecamente dalle seduzioni della carne e della bellezza, ma poi, quando a trent’anni ci accorgiamo di essere come chi ne ha novanta dinnanzi a un buio sconosciuto, di quale possesso possiamo gloriarci, che abbiamo?
L’uomo che contemplando il lago affonda in questi pensieri è un poeta: Catullo. A lui, e alla sua breve e tumultuosa esistenza (di cui, peraltro, si sa pochissimo, al di là della nascita, dell’amore per la donna sposata dai due nomi: Clodia e Lesbia, e di un viaggio in Bitinia) dedica un singolare, affascinante romanzo onirico, Alessandro Banda, intitolato L’ultima estate di Catullo (Guanda, pp. 195, 15,50). Nelle sue pagine, talvolta accorate, talvolta frenate dalla comprensibile esigenza di prendere le distanze dalla passione e dal logoramento di una esistenza disperata e incandescente, i lettori che conoscono uno dei «canzonieri» più celebri del mondo antico, ritroveranno tutti i versi di quelle poesie; e gli epiteti, i lamenti, le implorazioni, gli sberleffi che quei versi contengono, e in grandissima parte sono dedicati alla donna dissoluta, traditrice, prostituta, più anziana del poeta di dieci anni: Lesbia, insomma, che con la sua pelle candida, i suoi capelli bruni, le sue caviglie sottili, e i suoi seni appesantiti, il suo ventre che già ha qualche piega, ha fatto perdere la testa al provinciale di Verona, che per la prima volta l’ha vista a Verona, nel Foro, e da quel giorno non ha vissuto più. Ma non solo.
Vedranno (i lettori) spalancarsi di fronte ai loro occhi paesaggi romani notturni e diurni, luminosi e torbidi, con vicoli e bordelli, fiaccole e penombre, marmi levigati e boschetti cittadini, quali poteva descriverli unicamente uno scrittore (parlo di Alessandro Banda) che avesse Roma nel cuore. Vivranno Roma. E parteciperanno – grazie alle virtù dei sogni che scompaginano la cronologia – alla sontuosa, quanto funebre cena di Trimalchione; sentiranno risuonare i versi di Saffo e piangeranno la morte insieme a Ettore e ad Achille; incroceranno i personaggi delle Metamorfosi; ascolteranno le confessioni di Cesare sul desiderio illimitato del potere (simile al desiderio illimitato degli amanti) e i dubbi di Lucrezio, barricato con i testi di Epicuro, in un fortilizio di certezze che adesso stanno crollando. Queste ultime sono le pagine più convincenti del romanzo di Banda. Confrontano certezze apparentemente inattaccabili: teologiche e sentimentali, riflesse nella definitiva incertezza, insuperabile, della parola.