#Bufale, veleni e falsi #profili. Ecco l’arsenale parallelo della #propaganda #web di Giuliano Santoro (Repubblica, 18 novembre 2016)
ROMA Una storia di insulti online, profili Internet eterodiretti e cricche di mestatori. Una storia di quelle che ormai da anni caratterizza le campagne politiche in rete, è oggetto di un fascicolo giudiziario. La notizia che il sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti ha denunciato alla Procura di Firenze una utente Twitter, Beatrice Di Maio – dietro la quale potrebbe nascondersi non una persona fisica ma una “centrale” di propaganda a 5 stelle – ha riacceso l’attenzione sul web come terreno di scontro di eserciti non convenzionali.
Se negli anni scorsi le elezioni erano state influenzate dal modello Facebook, coi sostenitori dei diversi schieramenti che si incontravano scambiandosi contenuti, o dallo stile Twitter, e quindi era possibile interagire direttamente coi candidati come mai era accaduto prima, il voto che ha incoronato Donald Trump negli Stati Uniti insegna che la campagna elettorale non è caratterizzata da una particolare piattaforma ma dal contenuto virale, vero o falso che sia, e dalla sua capacità di diffondersi e irrompere nella realtà. Ecco perché, dicono i grafici che vengono dall’America, i fake sui social media hanno sorpassato le notizie tradizionali. E Mike Cernovich, animatore del sito alt-right «Danger and Play» può dire al New Yorker: «Su Twitter noi possiamo controllare la narrazione».
E in Italia? Gianroberto Casaleggio, negli anni in cui la sua creatura M5S muoveva i suoi primi passi, la metteva così: si tratta di tirare la volata al «sentimento collettivo» (esatto, sentimento: questa storia si nutre di paura, di rabbia a volte di entusiasmo, di sicuro emozioni più che fattori razionali). L’obiettivo è costruire e incanalare a fini politici l’emozione connettiva. «Online il 90 per cento dei contenuti è creato dal 10 per cento degli utenti – diceva Casaleggio – Queste persone sono gli influencer».
Antonio Casilli insegna Digital Humanities al Paris Institute of Technology e coordina diversi progetti di ricerca internazionali sui social media. Per cominciare, gli abbiamo sottoposto la Twitter analytics di Beatrice Di Maio. «Non bisogna farsi suggestionare da tecnicismi – spiega Casilli – Al di là dei contenuti, qui vedo soltanto un gruppo di utenti che si aggrega attorno a un ‘hub’, che è semplicemente un nodo che ha più connessioni con altri nodi della rete. Può impressionare qualche profano, ma è così che funziona, sia nella vita normale che sui social network». Ciò non toglie che nel contesto polarizzato del dibattito online una battuta ficcante, una vignetta azzeccata o una bufala ben studiata hanno lo stesso effetto di una scintilla in un campo di erba secca: basta una fiammella a incendiare la prateria.
Lo sanno i grillini, ma lo sanno anche i sostenitori di Matteo Renzi, che ha affidatola sua campagna a Jim Messina, noto per la capacità di spremere consensi dai «big data». Lo stesso Renzi, ha cercato la disintermediazione attraverso i caminetti 2.0 di «Matteo Risponde» e ha affidato ai suoi divulgatori in rete la missione di diffondere il messaggio che il Sì al referendum fosse la vera scelta anti- establishment. Anche alla Casaleggio Associati possono contare sull’effetto traino dei loro uomini più in vista. Basti pensare ai due golden boy Alessandro Di Battista (la cui pagina Facebook raccoglie un 1 milione 264 mila like) e Luigi Di Maio (che «piace» a 953 mila persone). La propaganda 2.0 all’italiana viene dopo quella dell’era di Berlusconi, per questo i post e le dirette richiamano esplicitamente al linguaggio neotelevisivo. Gli interventi in aula vengono concepiti come clip video in una location suggestiva, a uso e consumo dei clic su YouTube (ma anche Matteo Renzi approfittò di un suo intervento alla Camera per salutare «gli amici a casa»). Si dirà che una cosa non esclude l’altra: accanto ai big serve ancora il lavoro di base, serve che qualcuno faccia il lavoro sporco, di retroguardia, che gli attacchi più personali possano essere diffusi senza impegno. Lo scopo, rivelano nel loro «Supernova» i transfughi della comunicazione grillina Nicola Biondo e Marco Canestrari, è abbassare il livello del dibattito. Gli slogan in campagna elettorale, che promettano il taglio dei costi della politica come fanno gli animatori della campagna per il Sì o che paventino rischi per la democrazia come fanno i sostenitori del No, sono fatti proprio per adagiarsi sulle opinioni correnti.
È la vittoria del troll, del provocatore digitale? «In questo momento negli Stati Uniti si dice troll invece di dire fascista – dice ancora Casilli – Ma nel caso dei suprematisti bianchi preferirei si usasse la giusta definizione, senza girarci attorno. Da noi in Italia, quando diciamo troll pensiamo a una specie di manipolatore occulto prezzolato. Perché il troll è sempre l’altro da sé. Meglio concentrarsi sui contenuti che sull’etichetta».