Bettini, occhi acuti e incantati per un’opera collettiva sul #mito #classico
#MaurizioBettini , «Il grande racconto dei miti classici», una strenna del Mulino. Nel prediligere la forma-racconto il noto antichista si fa quasi piccino per non intralciare la meraviglia dei lettori. Ma lo studioso non abdica mai.
di Andrea Capra (Il manifesto – Alias Domenica , 27/12/2015)
Un lungo viaggio di mare, avventuroso, nello spazio e nel tempo: così, fin dalle primissime pagine, Maurizio Bettini presenta Il grande racconto dei miti classici (il Mulino «Fuori collana», pp. 504, euro 48,00). Conosciuto e apprezzato come fine lettore della civiltà classica in chiave antropologica, Bettini sembra quasi volersi fare piccino di fronte alla meraviglia del mito, come nel timore che l’incanto del viaggio possa svanire sotto la lente indagatrice del ricercatore: «spero che verrò perdonato – ci dice mentre narra l’infanzia di Zeus – se interrompo di nuovo, solo per un momento, il filo del racconto, e punto l’obiettivo su questo fenomeno così singolare, ossia le somiglianze e le ripetizioni a distanza che caratterizzano spesso i racconti mitologici». E così il libro, fedele al titolo, è anzitutto un racconto che in trentotto capitoli ripercorre la storia del mondo: le origini del cosmo, gli dèi, gli eroi semidivini, i mostri del passato remoto… Il viaggio marino si conclude, significativamente nell’Egeo con Arianna e Teseo, alle soglie dell’età storica – non per caso, Plutarco rivendica l’eroe alla Storia e lo include nelle sue Vite parallele.
Nel prediligere la forma racconto, Bettini non fa che mettere in atto una convinzione espressa nel capitolo introduttivo («La voce del mito»): il mito-viaggio è un’opera collettiva che attraversa i secoli, e indagarne l’origine è impresa improba, un po’ come chiedersi «in che modo nasce, nell’uomo, l’impulso a immaginare o a raccontare». Il mito è anzitutto racconto, e alla stessa conclusione conduce anche la domanda insolubile che ne interroga l’essenza: cos’è il mito? È racconto appunto, ma anche – aggiunge subito Bettini – una forma di conoscenza che insegna e tramanda «una cultura, le sue regole e i suoi significati: di volta in volta può spiegare l’origine di un rituale (per quale motivo agli dèi si offrono il grasso e le ossa dell’animale?), dichiarare il perché di un costume (portare al dito un anello), dare ragione del canto di un uccello (l’usignolo canta ‘Itú! Itú!’ Perché…) o giocare con le regole del linguaggio, svelandone i meccanismi». Per poi ribadire, poco oltre, che «nello stesso tempo però il mito resta, semplicemente, racconto, e in certi casi somiglia addirittura alla fiaba».
Insomma: il mito è racconto (A), però è tante altre cose più complesse (B), però in fondo è racconto (A). Formulazione contorta se non contraddittoria, mal celata dalle grazie della scrittura? Non è così. A monte, ci sono gli innumerevoli tentativi novecenteschi, coraggiosi ma destinati all’insuccesso, di definire in modo univoco cosa sia il mito, un’impresa cui ormai gli studiosi sembrano aver rinunciato: ecco perché Bettini sceglie il racconto e si limita semmai a enumerare alcune funzioni del mito, che lo descrivono e commentano ma non possono approdare a una definizione conclusiva. A valle c’è il racconto stesso di Bettini, che riprende volentieri lo schema A-B-A: la narrazione (A), magari dopo una garbata presentazione di scuse, si interrompe (B) per far posto più o meno brevemente a osservazioni che illuminano la funzione extra-narrativa e latamente culturale del mito, per poi riprendere (A) il suo corso placido fino alla fine di una storia. Fine che è poi sempre al tempo stesso l’inizio o il richiamo di un’altra, perché il mito è «come una grande ‘rete’ fatta di maglie che si tengono fra loro, di rimandi incrociati, di collegamenti trasversali», attraverso un numero potenzialmente infinito di varianti. Anche qui Bettini solo con molta cautela, e per breve tempo, smette i panni del semplice narratore: se chi legge è spesso avvertito dell’esistenza di versioni alternative, e se un capitolo intero (il quarto) è dedicato alle varianti del mito, l’informazione non è però mai passata con l’austerità severa dello studioso, ma in modi a loro volta affabulatòri, un po’ alla maniera di Erodoto. Eppure queste interruzioni o digressioni, per quanto caute, sono importanti nell’economia del libro: fra le malie del racconto, il lettore guadagna pian piano uno sguardo complesso, tridimensionale. La scommessa sembra essere quella di portare chi legge a vedere il mito da dentro e da fuori, con occhi acuti ma incantati. E la scommessa è vinta anzitutto sul piano della scrittura, che è fresca e accattivante, e dissimula nel nitore del racconto le asperità della ricerca.
Un altro aspetto che contribuisce al successo dell’impresa è poi lo splendido apparato iconografico. Le tavole si susseguono fascinose, anche se – a pensarci bene – con un ritmo apparentemente capriccioso. Un esempio: ben undici figure, per complessive nove pagine di pura iconografia, illustrano la nascita di Afrodite nel capitolo «I figli di Urano e Gea, coppia smisurata». Si va da un rilievo del V secolo a.C. fino a un’immagine del 2010, passando per Tiziano e per Picasso. E gli altri? E l’indimenticabile Crono divoratore di figli dipinto da Goya? Le figure, poi, non vengono richiamate nel testo, non si integrano nella narrazione, non offrono un inquadramento storico. Incuria? No. Piuttosto, un’apertura di credito, dichiarata quasi casualmente dopo un bel tratto di navigazione: «se il lettore – gettando uno sguardo sulle immagini che corredano questo libro – terrà a mente che sta procedendo attraverso un gioco di variazioni, avrà la possibilità di apprezzare ancor di più la bellezza di queste antiche invenzioni narrative che ancora chiamiamo ‘miti’». Un controcanto, quindi, un percorso in parte alternativo che arricchisce di un’ulteriore dimensione lo sguardo del lettore. Aggiungerei che il buon fruitore di testo e figure potrà poi capire meglio un dialogo di Platone, assistere con maggiore gusto e profondità a una tragedia di Euripide, sentir vibrare più dolce e chiara la voce di un canto pindarico. Non ci è dato conoscere una forma pre-letteraria del mito, non esiste una ur-versione del racconto rispetto alla quale tutte le altre, quelle che troviamo nei testi e nella tradizione iconografica, possano definirsi variazioni. Eppure, nel proporre di volta in volta nuove variazioni sul tema, la letteratura e l’arte classica presuppongono sempre nel destinatario la conoscenza del mito. Questo libro offre a chi non li ha i migliori presupposti per capirle e goderle, e al tempo stesso li affina in chi, almeno in parte, già li possiede.