«Basta proteggere i ragazzi. I #bruttivoti servono, eccome». Intervista a Alessandro D’Avenia (il Giornale, 9 maggio 2017)

Alessandro D’Avenia assomiglia al Piccolo Principe e ha l’energia dell’Attimo fuggente. Ma soprattutto ha un dono: sa parlare ai sedicenni. Sì, quei sedicenni indecifrabili che non sorridono nemmeno nei selfie e sembrano buoni solo a chattare.

Invece no: il prof-scrittore li incontra a teatro, in libreria. Li stuzzica su idoli un po’ più edificanti di Justin Biber e delle miriadi di youtuber. Leopardi e Omero in testa. Come fa? Dice la verità. Cruda, senza sconti. Ma poi non li molla lì, da soli. Li aiuta a non avere vergogna della loro fragilità e a cercare in quel caos interiore tipico dell’adolescenza (e non solo) il loro talento, piccolo o grande che sia. Ecco perché è entrato nel cuore di tanti ragazzi e di tanti genitori.

Libri, teatro. D’Avenia, mica è uno di quei prof che non si presenta mai a scuola?

«Non sarei credibile. Ho fatto un solo giorno di assenza. Ho un contratto part time per riuscire a fare tutto».

In classe fa leggere per intero l’Odissea. Insolito, perfino al liceo classico.

«L’antologizzazione ha distrutto il gusto della letteratura perché i ragazzi non fanno più esperienza dell’opera ma del programma. Tutto ciò che si fa a brani (parola veramente impietosa) sta in macelleria».

Lei invece insegna Omero come fosse un gioco di ruolo?

«Sì, ciascuno in classe adotta un personaggio, io faccio il narratore. Disponiamo i banchi a cerchio, com’era la struttura del racconto omerico. L’Odissea è il dna dell’Occidente. Ulisse è colui che ha patito per mare e ha conosciuto il pensiero di molti uomini. È l’identikit di cosa sta a fare oggi un ragazzo a scuola: conoscere gli altri, confrontarsi con la negatività di un mondo che oggi vuole essere solo positivo».

Intende stile Facebook?

«L’algoritmo a cui ci abitua Facebook è un’apparente felicità per cui non si entra mai in territori che ci destabilizzano, come invece fa Ulisse. Oggi si cerca di proteggere i ragazzi da qualsiasi tipo di sofferenza e fatica. Invece la vita ha come ingrediente necessario il dolore per conoscere se stessi».

È questo l’elogio della fragilità che vuole trasmettere ai ragazzi?

«Ulisse piange molte volte. I ragazzi mi chiedono: ma come? Da un eroe non ce lo aspettavamo. Eh, certo, se fai l’Odissea a pezzi non leggi le parti in cui emerge l’uomo che ha perso tutto e che tutto deve ritrovare».

Idem Leopardi, se non leggi tutto pensi sia l’emblema del pessimismo, punto. Invece?

«Il suo è tutt’altro che il messaggio di un pessimista. Ero stufo di questa semplificazione scolastica di Leopardi. Se ci fermassimo allo schema del pessimismo non capiremmo che Leopardi non scrive poesia a chi non spera. La Ginestra è un canto di speranza straordinario. Ci insegna ad avere pietà delle fragilità altrui e a metterci in gioco e consolare».

Cosa valuta nelle interrogazioni?

«Comincio sempre da ciò che ha colpito i ragazzi e poi, implacabilmente, vado a fare le domande sulle nozioni che comunque sono necessarie per costruire un discorso più ampio. Come diceva Aristotele: partire dal noto (che va conosciuto) per arrivare all’ignoto».

Uno come lei soffre a dare un 4, vero?

«E invece no. Se non do 4 quando è meritato, faccio del male ai ragazzi. E perde di valore anche l’8. Magari cerco di evitare voti che suonino come un giudizio, tipo il 2, quello è un colpo di grazia. Un 4 dice che ti devi rimboccare le maniche».

Sprona la voglia del riscatto?

«Assolutamente sì. I ragazzi si rendono conto che li sto trattando da adulti. Non hanno bisogno di essere protetti, hanno bisogno della verità ma gliela devo dire in maniera onesta».

I genitori invece fanno troppi sconti ai figli?

«Quando l’insegnante comincia a massacrare il figlio, il genitore che fa? Mette in discussione il prof perché “mio figlio non può avere un insuccesso, già la vita è complessa”. Questo corto circuito va spezzato, ridiamo all’autorità degli educatori la dignità che le spetta. E svincoliamoci da un modello di felicità basato sui risultati: avere, apparire, fare. Torniamo all’essere».

Però i social network non aiutano molto a coltivare l’«essere».

«Però fanno parte del nostro tempo. Bisogna rimandare a una navigazione più piena. Spezziamo l’algoritmo e facciamo vedere che c’è altro».

A proposito di algoritmo. So che lei aveva un rapporto pessimo con l’algebra.

«Eh si, è sempre stato un rapporto debolino. Chi me la doveva insegnare non sapeva insegnarmela. Al liceo è fondamentale unire le due culture, umanistica e scientifica. Una delle falle è l’orientamento. Io al triennio introdurrei una maggior opzionalità. Perché, se ho talento in un ambito, non posso potenziare quell’aspetto da subito?».

Sta proponendo di anticipare al liceo ciò che avviene all’università con la scelta dell’indirizzo?

«Oggi l’alternanza scuola-lavoro mette i ragazzi in contenitori che non hanno scelto, calati dall’alto. E allora il percorso non nasce dai talenti del singolo ragazzo. L’orientamento andrebbe cominciato alle medie, il grosso buco ora è lì, tanti ragazzi scelgono le superiori per “tradizione di famiglia” o perché già ci vanno gli amici. Così rischiano di recitare copioni che non sono adatti ai loro talenti. La scuola di oggi non forma i docenti a questa attenzione».

Ecco, i docenti. Siamo a un passo dalle nuove regole della Buona scuola: basta graduatorie e percorsi più facili per accedere alla cattedra?

«No, non ci sarà un percorso più facile ma un tirocinio di tre anni. Di buono c’è che si mette ordine in un sistema caotico in cui facevi concorsi e non avevi la cattedra. Un docente su sei in Italia è precario. Vuole dire che qualcuno gli aveva promesso un posto di lavoro che non c’era».

Restano i prof con la paghetta. So che lei ha criticato la riforma anche in un faccia a faccia col ministro Fedeli.

«”Come si fa?”, le ho chiesto. Così si uccide la dignità del lavoro. E poi si creerà una scuola a due velocità. I nuovi entreranno a regime nel 2021-22. Ora andiamo avanti con questo carrozzone».

Lei ha addosso una specie di fuoco sacro. Ma non sono nemmeno da biasimare i docenti che, dopo anni, sono demotivati.

«Io differenzio tre categorie di insegnanti: gli indecenti (quel 20% che sta a scuola per uno stipendio). Un altro 20% di docenti veri, con la vocazione, che non è una missione che tocca alcuni privilegiati ma è un fatto di professionalità. Poi c’è la zona più ampia degli in-docenti, quelli che avevano iniziato con il sacro fuoco e, a poco a poco, si sono accomodati nella facile sicurezza del “devo portare avanti il mio programma”».

Come rimotivarli?

«Innanzitutto va rivisto il contratto, bloccato da anni. Non si può pagare un’ora di lezione quindici euro, siamo fuori dal mondo. Bisogna tornare a giocare in squadra. Se tu lasci una persona dietro a una cattedra tutta la vita e l’unico motivo per cui fa scatti in graduatoria è l’anzianità, è chiaro che stai dicendo che non ci sono altri criteri di merito».

Parliamo dei ragazzi. Loro la ascoltano parecchio. Affronta mai il tema del bullismo?

«Sì e faccio leggere Arancia meccanica di Anthony Burgess. È un libro straordinario perché inventa un linguaggio per parlare della violenza. Non è un’esposizione pornografica o imitativa. Fa ironia, prende le distanze. Noi abbiamo in mente il film. Ma Kubrick omette il finale. Nel libro Alex, il protagonista, ritrova in un bar uno dei vecchi compagni con cui andava a distruggere e vede che nel frattempo si è innamorato di una donna e ha cambiato vita. Allora capisce che è arrivato il momento di impegnarsi per qualcosa. La violenza è un dato che ci portiamo dentro, non può essere estirpato da sistemi che pretendono di salvarci dall’esterno. Occorre un lavoro interiore».

Come sono gli adolescenti? Stressati, soli?

«La cronaca ne parla come di una generazione allo sbando. Però la sera io riempio i teatri parlando di Leopardi e qualcosa significherà, vuole dire che forse c’è anche altro».

Lei sprona i giovani a guardare oltre la siepe. Il messaggio arriva?

«I giovani si aggrappano alle risposte credibili. Io parlo di un mondo difficile da affrontare ma, se lo ascolti, capisci dove sta la debolezza. Se a 14 anni trovi qualcuno che dice: “Guarda, tu hai un talento, comincia a impegnarti in questo”, è chiaro che il meglio delle tue risorse non vanno sprecate nella distruzione, ma impiegate nella costruzione. Quando non c’è questo impegno (che sia il volontariato o lo sport) è chiaro che c’è un ripiegamento narcisistico su se stessi. Ed è facile che alcol e droghe diventino l’espressione di un’insoddisfazione».

Però Pietro Giordani, maestro di Leopardi, non lo incoraggiò granché a seguire il suo talento. Eppure…

«Quando Leopardi gli scrisse della sua spinta verso la poesia, Giordani gli diede una risposta rassicurante, non sfidante: prima devi fare vent’anni di gavetta nella prosa. Leopardi invece seguì l’ardore del momento, più forte. Ecco, questo sì che è dialogo educativo».

Quindi il segreto è riuscire a dare forma a quell’inquietudine tutta adolescenziale?

«Esatto, ma occorre essere orientati. Noi invece ai ragazzi chiediamo solo prestazioni, la scuola è basata sulla performance».

Tipo X Factor?

«È per questo che i talent show piacciono così tanto. C’è lo stesso sistema. Ma la scuola non deve essere questo. Deve aiutare a fare fiorire la propria identità, la propria unicità».

Ai suoi studenti consiglia libri extra scolastici?

«Sì, su Istagram. L’ultimo è Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke, per i ragazzi che mi chiedono come si fa a scrivere. È un libriccino rapido in cui un giovane fa la stessa domanda a un maestro. Consiglio ciò che aiuta i ragazzi a guardare la complessità del mondo e a trovarci un senso. Ho fatto leggere 1984 di George Orwell e lo hanno amato tantissimo. E poi ho fatto leggere La strada di Cormac McCarthy, libro durissimo, e lo hanno amato».

Nei suoi libri lei si cala molto bene nella parte dei sedicenni.

«Elemento fondamentale, ma di rimbalzo racconto anche il mondo degli adulti, incapace di dare perché ha le stesse fragilità dei ragazzi. Dire che i miei sono libri per ragazzi è sbagliato. Racconto sempre dell’educazione. Io li chiamo romanzi di trasformazione, non di formazione: i ragazzi, grazie a uno sguardo adulto su di loro, mutano le prospettive e trovano cosa possono fare nel mondo. Lo stesso avviene nel dialogo con Leopardi».

Federico Moccia racconta l’adolescenza in un altro modo ma anche lui è stato parecchio in cima alle classifiche.

«Lui ha fatto una fotografia dell’adolescenza, io propongo un percorso».

Parliamo di fede. Perché ha così poco appeal tra i giovani?

«Non ha appeal quando non è credibile ed è un ritualismo vuoto. Che fede abbiamo raccontato? Noiosa. Invece è adrenalina. Anche il Vangelo promuove i talenti. Dice che su di noi c’è uno sguardo che viene dall’eternità e che ci ha messo a questo mondo per fare qualcosa di bello».

Gli adolescenti sanno vivere l’amore?

«No, è un disastro. Oggi non c’è il senso della fatica, appena arriva la prima negatività si pensa che sia finito l’amore. Invece finisce l’innamoramento, ma l’amore comincia».

Ha in mente un nuovo libro?

«Sarà proprio sull’amore, mi interessa raccontare l’amore come potrebbe essere. Sarà molto diverso rispetto a ciò che ho fatto fino ad adesso».

MARIA SORBI

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