#Augusto alla guerra della memoria

ALIAS DOMENICA—  Carlo Franco,   3.5.2015 

 #LucianoCanfora, «Augusto figlio di Dio» da Laterza. Un libro indiziario che ricostruisce tra fonti antiche e analogiemoderne come il principe fece prevalere una versione depurata e trionfale della sua ascesa 

anno augu­steo è morto, assai dol­ce­mente. A dif­fe­renza dal bimil­le­na­rio del 1937-’38, cele­brato dal regime fasci­sta con grande visi­bi­lità, quello tra­scorso non resterà memo­ra­bile. A oppor­tuna distanza dalla sbia­dita ricor­renza appare da Laterza un impor­tante volume di Luciano Can­fora, Augu­sto figlio di Dio («I Robinson/Letture», pp. 567, euro 24,00). Ripren­dendo e siste­ma­tiz­zando pre­ce­denti inda­gini, esso ana­lizza l’emblematica car­riera dell’erede di Cesare nel riflesso della tra­di­zione sto­rio­gra­fica. Secondo la «tipica para­bola del potere sca­tu­rito da una rivo­lu­zione», Augu­sto seppe creare «un nuovo ordine sta­bile, a prezzo della repres­sione di ogni ten­ta­tivo di toglier­gli il potere», dif­fon­dendo del pro­prio governo «un’immagine di sta­bi­lità e sere­nità». Ma «le noti­zie soprav­vis­sute nella tra­di­zione bastano a farci capire che la fac­ciata copriva un peri­colo costante»: il libro inse­gue appunto le tracce della «memo­ria divisa» sulle guerre civili romane, e stu­dia lo sforzo del prin­ceps (non del tutto riu­scito) per affer­mare la pro­pria visione dei fatti. Vi era, die­tro il volto impe­ne­tra­bile e impas­si­bile che tutti cono­sciamo dalla sta­tua di Augu­sto rin­ve­nuta a Prima Porta nel 1863, un grumo di vio­lenze e di morte, di spre­giu­di­ca­tezza e di lotta poli­tica. Vio­lenza legata soprat­tutto agli anni gio­va­nili: un carico rima­sto, pesante, dalla gio­va­nile «discesa in campo» nel 44 a.C. fino alla morte, sessant’anni dopo, quando il capo­parte vit­to­rioso su tutti i com­pe­ti­tors era dive­nuto il «vene­ra­bile» (seba­stos), il «padre della patria». La chiave per rivi­si­tare senza miti la car­riera di Augu­sto, supe­ran­done gli stu­diati oblii, è indi­vi­duata nelle sue Memo­rie. Un testo cer­ta­mente cru­ciale, ma del quale soprav­vi­vono solo pochi fram­menti: di qui l’indagine indi­zia­ria di Can­fora, volta a recu­pe­rarne la pre­senza nella sto­rio­gra­fia con­ser­vata. Al cen­tro non sono gli sto­rici anti­chi più cele­bri, ma le Sto­rie di Appiano di Ales­san­dria (II secolo d.C.), super­stiti tra l’altro pro­prio per la sezione sulle guerre civili romane (libri 13–17, a cura di Emi­lio Gabba, Dome­nico Magnino, Utet 2001): e si ragiona anche di Vel­leio Pater­colo, o di Floro.

 La prima parte del libro è dedi­cata a una minuta ana­lisi della strut­tura, della for­ma­zione e della tra­di­zione dell’opera di Appiano: grande atten­zione filo­lo­gica è rivolta alle forme del libro antico, pun­tando a com­pren­dere il metodo di lavoro dello sto­rico e a rico­struire, nei limiti del pos­si­bile, le fonti (per noi per­dute) che egli ado­però. Tale mate­ria, già affron­tata da altri, viene rie­sa­mi­nata da Can­fora dia­lo­gando più volen­tieri con gli stu­diosi pas­sati che con i con­tem­po­ra­nei, i quali si meri­tano talora taglienti cri­ti­che (per esem­pio, la recente edi­zione dei Frag­ments of the Roman Histo­rians, 3 voll., Oxford 2013). Sono inda­gati così i mate­riali con­tem­po­ra­nei agli eventi che Appiano mise a frutto, ad esem­pio, per il suo docu­men­ta­tis­simo rac­conto delle san­gui­na­rie pro­scri­zioni volute dai trium­viri Otta­viano, Anto­nio e Lepido nel 43 a.C.: la «pagina nera» di Augu­sto (Appiano, Sto­rie di pro­scritti, Sel­le­rio 1990).

 Gli anni tur­bi­nosi e vio­lenti seguiti all’assassinio di Cesare gene­ra­rono una grande quan­tità di scritti: una lunga bat­ta­glia per la memo­ria , com­bat­tuta anche dopo la fine degli scon­tri armati. La sug­ge­stiva rico­stru­zione di Can­fora, ricca di acri­bia non meno che di senso poli­tico, immerge il let­tore nel con­flitto che oppose i cesa­riani ai cesa­ri­cidi, e i cesa­riani tra loro: in quei mesi furono scam­biate molte let­tere e dif­fusi aggres­sivi pam­phlet, che rive­la­vano gli spe­ri­co­lati vol­ta­fac­cia com­piuti dai pro­ta­go­ni­sti (com­preso il vin­ci­tore finale) nella loro lotta senza quar­tiere. A distanza di tempo quel mate­riale divenne imba­raz­zante: come nel caso dell’epistolario di Cice­rone (vit­tima dei trium­viri), che fu pub­bli­cato post mor­tem con oppor­tune sele­zioni e fu usato da Augu­sto con spre­giu­di­cata abi­lità. Vi erano, sull’agonia della repub­blica romana, anche reso­conti sto­rio­gra­fici, «nar­ra­zioni incon­ci­lia­bili ed ovvia­mente faziose», diver­genti nelle inter­pre­ta­zioni e nelle ana­lisi delle colpe. Tra i testi­moni soprav­vis­suti e scri­venti c’era il cesa­riano Asi­nio Pol­lione (le cui Sto­rie sono ricor­date da Ora­zio in un’ode famosa: 2,11), o altri con­tem­po­ra­nei come Seneca padre, dalle cui Sto­rie, ine­dite per decenni e pure per noi per­dute, deri­vano le nume­rose e poco favo­re­voli noti­zie su Augu­sto che il figlio Seneca (il filo­sofo) dis­se­minò nella sua opera. Anche per la pre­senza di tali memo­rie non omo­lo­gate, la car­riera gio­va­nile del prin­ceps restò un argo­mento scot­tante: per­sino il rac­conto di un autore «inte­grato» come Tito Livio vi si con­frontò con dif­fi­coltà.

 Di fronte a ciò, urgeva per Augu­sto «argi­nare le pul­sioni sto­rio­gra­fi­che e memo­ria­li­sti­che di alcuni ex-protagonisti o loro ammi­ra­tori», urgeva far pre­va­lere una ver­sione depu­rata e trion­fale, urgeva rimuo­vere le ambi­guità e tacere le vio­lenze, pre­sen­tan­dole come legali o camuf­fan­dole sotto la «neces­sità» della poli­tica. E per far que­sto biso­gnava che le voci dis­so­nanti fos­sero emar­gi­nate o taci­tate. Augu­sto, da vero mae­stro della comu­ni­ca­zione, con­trollò la sto­rio­gra­fia attra­verso intel­let­tuali a lui fedeli, ma anche in pro­prio. Le sue Memo­rie erano un’opera che «rive­lava det­ta­gli, sve­lava, a modo suo, arcana, met­teva sotto luce posi­tiva o nega­tiva dei viventi, dei pre­sunti o poten­ziali avver­sari, chia­riva epi­sodi». Un pro­getto deli­ca­tis­simo: anche a distanza di anni, e nono­stante la vigi­lanza del vin­ci­tore, le pas­sioni resta­vano vive. Lo mostra il caso di un ignoto ex-proscritto, che nell’elogio fune­bre della moglie ricor­dava con ran­core le sopraf­fa­zioni patite da Lepido, e il sal­vi­fico inter­vento di Otta­viano (Lidia Sto­roni Maz­zo­lani, Una moglie, Palermo 1982). Gio­vava allora affer­mare una memo­ria «teleo­lo­gica» del grande con­flitto civile, che facesse con­ver­gere l’intero tra­va­glio di un impero nella prov­vi­den­ziale affer­ma­zione del paci­fi­ca­tore, del restau­ra­tore della res publica (!), del figlio di dio. Tale, in quanto figlio del divi­niz­zato Cesare, s’intende: figlio devoto, la cui intera azione poli­tica appa­riva come la legit­tima «ven­detta» del padre e come l’assunzione di una ere­dità poli­tica (per la verità, con esiti diversi rispetto al modello: Augu­sto non voleva farsi ucci­dere, e fu più accorto). Ma «figlio di dio» anche in quanto oggetto di culto, e dif­fu­sore di una «buona novella»: pro­prio un euan­ghe­lion, indi­riz­zato ai popoli dell’impero, come narra un’iscrizione dell’Asia, valo­riz­zata da Santo Maz­za­rino in una pagina memo­ra­bile.

 Al figlio di dio rin­via il titolo del libro, accat­ti­vante e in qual­che misura spiaz­zante, se il pro­ta­go­ni­sta com­pare in primo piano solo oltre la metà del volume. E certo, la ric­chezza dei temi e dei mate­riali discussi costi­tui­sce per il let­tore un note­vole impe­gno: la rico­stru­zione di opere per­dute, della loro ten­denza, dei loro mate­riali, è eser­ci­zio non facile. Esso chiede di orien­tarsi tra sot­tili ana­lisi di fram­menti, che recu­pe­rano molto dal poco che è super­stite, di pon­de­rare ipo­tesi e sot­tili infe­renze, che sono argo­men­tate per altro con chia­rezza. Del resto la sto­ria richiede anche imma­gi­na­zione, e la tem­pe­rie di que­gli anni inquieti è resa con imme­diata evi­denza, gra­zie anche alle pro­ie­zioni per ana­lo­gia, carat­te­ri­sti­che di Can­fora, e alle molte osser­va­zioni di «scienza poli­tica» che sol­le­ci­tano con­so­nanze e rifles­sioni. Così quando per spie­gare l’acquiescenza degli intel­let­tuali anti­chi verso i poteri tiran­nici si evo­cano i «pen­ti­menti» espressi sotto il fasci­smo per alle­viare con­danne e con­fini, o quando si discute la tipo­lo­gia del dis­senso, deri­vato ora da «insi­pienza», ora da auten­tica urgenza, talora dalla fidu­cia «che il potere … com­porti o tol­leri mar­gini (il che, del resto, è quasi sem­pre vero, pur se in certi limiti o con varianti da regime a regime)». Molte nota­zioni appa­iono istrut­tive ben oltre l’oggetto d’indagine: per chia­rire il peso della vul­gata impo­sta da Augu­sto sui con­tro­versi avve­ni­menti della sua gio­ventù, si nota che «la codi­fi­ca­zione di una fal­sità man mano impo­sta come verità (la cosid­detta ‘sto­ria sacra’) … per cer­chi con­cen­trici pro­duce ampli­fi­ca­zioni sem­pre più defor­manti». D’altra parte, si osserva, è ine­vi­ta­bile che si generi un sistema di men­zo­gne, giac­ché «la poli­tica è l’arte della parola non veri­dica: stru­mento che si con­si­dera legit­ti­mato dalla rile­vanza, quando dav­vero è tale, dell’obiettivo in tal modo per­se­guito». Il che riguarda non solo gli anti­chi che si ade­gua­rono alla pro­pa­ganda orche­strata da Augu­sto, ma anche i moderni: i tota­li­ta­ri­smi nove­cen­te­schi sono ancora un rea­gente pro­dut­tivo per ripen­sare la rivo­lu­zione romana.

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