#Anima. La vita e le opere
Da qualche tempo il riduzionismo domina le discussioni filosofiche e scientifiche
La questione del rapporto tra corpo e spirito risale agli sciamani delle steppe asiatiche, attraversa la #Grecia classica e arriva ai papati recenti
di Mauro Bonazzi (Corriere La Lettura 7/2/16)
C’è un termine che torna con frequenza crescente nei dibattiti odierni: riduzionismo. È la tesi che tutti i fenomeni possano essere ricondotti a una base materiale comune e inseriti in una stessa trama causale. La realtà è unica, è quella fisica e può essere spiegata per mezzo delle leggi che governano l’universo. L’idea nasce e prende forza agli albori della modernità: sempre più decisamente, le nuove scoperte scientifiche mostravano che la realtà ha un suo ordine intrinseco, determinato, autonomo. Non c’era più bisogno di pensare a un ente esterno e immateriale per spiegare l’esistenza di questo sistema incredibilmente ricco e complesso, regolato da leggi di causa ed effetto.
Di questo meccanismo anche noi, fino a prova contraria, facciamo parte. Per quali ragioni si dovrebbe sostenere che per l’uomo queste leggi non valgano? Se vogliamo capire chi siamo ci dobbiamo occupare delle nostre proprietà fisiologiche, di cellule, neuroni e sinapsi; non di altro. Con un linguaggio più semplice, lo aveva già detto anche Nietzsche, tutt’altro che disinteressato agli sviluppi delle scienze: «Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro». La tesi è ragionevole; e le conseguenze dirompenti, perché l’immagine dell’uomo, di cosa siamo, cambia in modo radicale.
Diventa problematico parlare di libertà ad esempio, come aveva già osservato Spinoza, un altro figlio della rivoluzione scientifica. Se anche per noi valgono le leggi fisiche, la nostra libertà non è diversa dalla pietra che, cadendo, pensasse di cadere di propria volontà e a proprio piacimento. Un’intuizione filosofica, che gli esperimenti di Benjamin Libet sembrano confermare: prima ancora di diventare consci della scelta che faremo, appare che le nostre cellule cerebrali si sono già attivate in un senso piuttosto che in un altro. Il libero arbitrio è un’illusione, dunque? Sì, rispondeva deciso il solito Nietzsche, e illusoria era pure la pretesa di parlare di responsabilità. Se non siamo liberi, perché distinguere tra buone e cattive azioni? «È assurdo lodare e biasimare la natura e la necessità». Vale per la pietra che cade, vale per le azioni che compiamo.
Sono idee affascinanti, che aprono nuovi scenari. Ma ancora manca la prova decisiva: ancora non si è dimostrato in modo incontrovertibile che l’uomo è un essere «a una dimensione», che rientra interamente in un sistema causale determinato, con tutto quello che ne consegue. E se invece ci fosse in noi qualcosa di irriducibile rispetto al corpo, non interamente vincolato alle leggi fisiche? Che le scienze non possono cogliere perché non fa parte del loro campo d’indagine? Thomas Nagel, filosofo della New York University, ha azzardato una tesi del genere in Mente e cosmo (Raffaello Cortina), suscitando un vespaio. Ma non è certo il primo ad averci provato. Quel qualcosa di irriducibile ha un nome, in uso da secoli: è l’anima.
La storia comincia da lontano.
Le prime attestazioni della credenza che ci sia qualcosa in noi che sfugge alle normali leggi dello spazio e del tempo si perdono in un passato remoto, nelle steppe dell’Asia centrale. È il mondo degli sciamani, dotati di poteri magici con cui staccano il loro io dal corpo per fare esperienze precluse ai più. Incubazioni rituali, simulazioni di morte, stati di estasi che liberano l’anima dai vincoli corporei e la guidano in un viaggio iniziatico, rivelandole i segreti dell’universo, il presente, il passato, il futuro. Sono storie bizzarre, che diventano interessanti quando si depurano degli aspetti folcloristici. Quando cioè se ne appropriano Socrate e Platone, inventando la coscienza, facendo dell’anima la sede delle nostre decisioni autonome e responsabili.
Il discorso si sottrae al contesto sapienziale, si presenta davanti alla città, si fa morale. Nel Fedone Platone racconta l’ultimo giorno di vita del maestro. Socrate è in prigione, in attesa di bere la cicuta: ma se non è scappato, spiega agli amici, se resta lì seduto a parlare, non è perché i suoi muscoli e i suoi nervi sono disposti in un certo modo. È lì perché ha deciso così, perché gli è parso giusto accettare il verdetto — ingiusto — degli ateniesi. Nervi e ossa sono importanti, ma Socrate è anche altro, soprattutto altro. È la sua anima, libera. Socrate ha scelto: poteva anche scegliere altrimenti, e per questo può essere apprezzato o criticato. Nessuno si sognerebbe di giudicare la pietra che cade. Ci sono le cose e le persone, la differenza sta nell’anima.
Tutto diventa ancora più interessante con Aristotele e il problema dell’intelligenza. Il tentativo, antiplatonico, è far rientrare il discorso dell’anima nella trattazione biologica, disinnescando ogni velleità metafisica. L’anima è la vita di un corpo, è un corpo che vive. Certo. Ma il dubbio rimane. Davvero tutto può essere ricondotto al corpo? Tutti i nostri pensieri, il flusso di idee dell’intelletto sono solo la conseguenza di impulsi fisici? È la domanda di Nagel, a cui Pascal ha già risposto senza esitazione: «Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: è impossibile, è di un altro ordine». Anche Aristotele alla fine concorda e, quando alza lo sguardo sull’universo, la sua intuizione diventa sublime.
Perché anche il principio ultimo, da cui tutto dipende, è pensiero; pensiero senza materia, nient’altro che pensiero. Il pensiero è vita; ed è all’origine di tutto. «Pensiero che pensa se stesso», così Aristotele definisce Dio. «In principio era il logos , il verbo»: così inizia il Vangelo di Giovanni. L’uomo, «irriducibile a una semplice particella della natura» (Giovanni Paolo II), è l’interlocutore libero e intelligente di Dio. Senza trascurare le differenze (gli ateniesi risero quando Paolo parlò della resurrezione dei corpi), tra filosofia greca e cristianesimo le linee di continuità non mancano: lo diceva Nietzsche («il cristianesimo, platonismo per il popolo») e lo ha ripetuto Ratzinger a Ratisbona. Da Cartesio ai Cugini di Campagna, l’anima diventa patrimonio comune, uno strumento indispensabile per analizzare quella cosa sfuggente che siamo, nella sua specificità. Siamo sicuri che sia arrivato il momento di sbarazzarsene?
L’ultimo grande filosofo greco è stato Plotino; di certo vince il premio per la tesi più bizzarra. Il nostro vero «io» è una parte dell’anima mai discesa nel corpo, che risiede eternamente nel mondo delle idee, assorta nella contemplazione delle realtà più alte. Pensiero puro, insomma. Assurdità? Teologicamente neanche troppo: è la versione filosofica del paradiso. Basta pensare ai beati di Dante, il cui unico desiderio, realizzato, è proprio quello di vedere Dio — vale a dire conoscere il significato ultimo delle cose; comprendere il senso (e la bellezza) dell’esistenza, nostra e di tutto il resto. Per Plotino non c’è neppure bisogno di aspettare l’aldilà: la beatitudine è possibile qui e ora. È come un’aria satura di gas: non si vede, ma è lì; il nostro pensiero è come la fiamma che l’accende; l’esplosione e l’incendio — la fiammella che si ricongiunge al fuoco, il nostro pensiero che s’identifica in Dio e vede tutto con i suoi occhi — ecco la felicità.
Non si tratta di sola teologia. Le tesi di Plotino sembreranno pure bizzarre, ma sono attuali e molto concrete. Per la prima volta si mette in discussione l’identificazione tra noi e la nostra coscienza. Il nostro vero io è qualcosa di cui non sempre, quasi mai anzi, siamo consapevoli, ma che comunque è alla base dei nostri pensieri e delle nostre azioni. Assurdità? Ma non è stato Sigmund Freud a insegnare che una parte decisiva della nostra vita si svolge al di là della soglia della consapevolezza? Alla luce delle nuove scoperte scientifiche, non diceva cose molto diverse neppure Edoardo Boncinelli nella «Lettura» del 24 gennaio, quando spiegava che anche le regioni subcorticali del cervello, di cui non siamo coscienti, concorrono a determinare in modo essenziale ciò che siamo e ciò che facciamo. La nostra è l’epoca più adatta a sviluppare la tesi di Plotino. Senza sottovalutare le differenze, perché la prospettiva è ribaltata, il riduzionismo rovesciato: con Freud e con la scienza siamo ricondotti verso una dimensione fisiologica, verso una miriade di processi neuronali. Con Plotino il nostro «io» va nella direzione opposta, perdendosi in un ordine intelligibile, forse divino. Non c’è mai fine alla fantasia dei filosofi, penseranno molti. Sempre che siano fantasie, però, perché il mistero del pensiero ancora non è stato risolto. Insomma, chi siamo noi, veramente? O meglio, che cosa è «io», sempre che esista?
«Conosci te stesso», intimava l’oracolo di Delfi. Fosse facile. Il mondo in cui viviamo è complicato e noi lo siamo ancora di più; ognuno si sforza di capire e cerca di dire la sua. Forti dei loro successi, gli scienziati indicano il cammino con esperimenti sempre più precisi. I filosofi sollevano dubbi sulla direzione presa: davvero questi esperimenti riescono a cogliere tutta la realtà? Davvero ciò che non è conoscibile scientificamente non esiste? I teologi puntano il dito da un’altra parte. Ci si confronta, si discute, spesso si litiga. A volte vien da pensare che il rumore delle nostre urla arrivi fin nei posti più remoti dell’immenso universo che ci circonda. Dove magari siede qualche divinità annoiata, grata di poter assistere allo spettacolo di questi esseri curiosi, sempre in cerca di se stessi.