Alle radici dell’intolleranza
L’analisi del filologo Bettini che la individua nei credi monoteisti
«Elogio del politeismo» il nuovo saggio dello studioso parte dall’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni antiche esempio di tolleranza
di Luigi Spina (l’Unità 8/6/14)
PER PARLARE ADEGUATAMENTE DELL’ «ELOGIO DEL POLITEISMO » DI MAURIZIO BETTINI, È DOVEROSO TRACCIARE PRIMA UN BREVE ELOGIO DELLA COMPARAZIONE ANTROPOLOGICA, che è il metodo che più volte l’autore richiama come guida della sua analisi. A differenza dell’analogia, che schiaccia il nuovo sul già conosciuto (non si contano gli Hitler, i Mussolini e gli Stalin che si sono susseguiti nella politica italiana), la comparazione distingue le due realtà, quella che si conosce e quella che si vuol comparare, per coglierne soprattutto le differenze e le singolarità.
Ecco, completato il mini-elogio della comparazione, si può cominciare a dire che il saggio di Bettini affronta un tema non usuale: l’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni politeiste antiche. Farne materia di ricerca sì, ma pensare che si possano importare, per quanto criticamente, idee e comportamenti da qualcosa che non rientri nella dialettica fra le tre religioni monoteiste e la non religiosità non è pensiero ricorrente. Proprio nell’Introduzione, Bettini propone un argomento convincente: di Platone, di Aristotele, di Agostino, della democrazia antica non si può fare a meno di parlare, qualsiasi argomento attuale si voglia affrontare; difficile invece che si parli della religione antica, politeista. Il volume è organizzato in 15 capitoli e due appendici. I titoli dei capitoli offrono i terreni della comparazione: dal presepio e dalle moschee alle statuette romane e al larario; dalla proclamata unicità del Dio alla possibilità di riadattare gli dèi; dai possibili contatti sotterranei fra monoteismi e politeismi alle strutture sociali e comunitarie nelle quali la/le divinità si insediano; dalla pregnanza delle parole, infine, ai paradossi della/e scrittura/ e. Le appendici approfondiscono due temi: la tolleranza e l’intolleranza; gli usi e i significati del termine paganus.
Fra gli elementi positivi, in base ai quali il politeismo antico potrebbe far riflettere meglio sulle rigidità del monoteismo c’è sicuramente la curiosità, anche di massa, che costituiva la molla per conoscere davvero il funzionamento di religiosità diverse dalla propria. L’ostacolo dell’unicità condiziona quello stesso dialogo interreligioso che rimane, comunque, un tentativo auspicabile per mantenere aperto un canale comunicativo e di reciproca conoscenza. Quando Papa Benedetto XVI richiamò, nel 2006, la controversia del 1391 fra Manuele II Paleologo e un maestro persiano, un mudarris di fede musulmana, non fu difficile constatare che non si trattava di un vero dialogo, ma di una specie di doppio monologo, come scriveva proprio Théodore Koury, il filologo a cui lo stesso Ratzinger si riferiva. D’altra parte, la scoraggiante presa d’atto non riguardava solo la controversia antica ma anche le modalità con cui furono lette le parole del Papa.
Il rapporto con la (o le) divinità altrui è la cartina di tornasole che Bettini sperimenta per comparare la cultura romana e le culture odierne, in uno scavo che è contemporaneamente antropologico e linguistico. Non si può prescindere dal modo in cui gli antichi hanno denominato un fenomeno, una pratica, un oggetto, e dal modo in cui, spesso, sono i moderni a rinominare quello stesso dato, cercando di retrodatarne la sostanza e mascherando, in tal modo, i differenti quadri mentali. La raffigurazione del politeismo da parte dei moderni avviene attraverso termini che non corrispondono quasi mai alla denominazione da parte delle culture antiche, l’unica che consentirebbe di capire effettivamente cosa gli antichi stessi intendessero. Questa indagine, che Bettini conduce con grande chiarezza si concentra su termini per noi familiari quali politeismo, e il corrispettivo monoteismo, pagano, idolatria ecc., ma la cui storia, il cui uso, presenta molti aspetti più complessi e spesso inattesi. La traducibilità degli dèi, cioè la possibilità di accogliere divinità di altre culture nella propria, rinominandole, riconoscendo loro nuove funzioni, rappresenta il vero punto originale del politeismo antico. In quel mercato comune della divinità non era un problema inserire nel contatto fra i popoli e le culture i rapporti fra le divinità, in una tendenza all’inclusione e all’allargamento, piuttosto che all’esclusione e alla reductio; la traducibilità tra divinità, inoltre, non consente di identificare superficialmente quelli che potrebbero sembrare suoi inaspettati residui nelle religioni monoteiste, come per esempio, in quella cattolica, il culto dei santi. Le funzioni che si attribuiscono alla Madonna e a molti santi, di patronato, di assistenza, di protezione mancano del requisito della traducibilità, della trasferibilità, per cui mantengono quella che Bettini definisce una pluralità esclusiva.
Un’attenzione particolare Bettini dedica alla tolleranza, che è termine moderno altrettanto abusato che contestato, in quanto conserva insieme un valore tendenzialmente positivo e un rischio negativo di tipo etimologico. Non a caso la tolleranza è contrapposta alla interpretatio degli dèi, quel carattere di traducibilità che percorre tutto il libro. L’interpretatio è quella traducibilità potenziale che viene stabilita attraverso la mediazione, il compromesso che presiede a qualsiasi negoziazione perché abbia un buon esito. Si capisce, dunque, come la tolleranza, spesso sentita come punto di avvio di un dialogo fra diversi, marchi nello stesso tempo la gerarchia fra i diversi stessi: il rispetto che si sottintende nel termine cela, infatti, la sofferenza della accettazione risolta solo da un’etica caritatevole che sa anche tollerare gli errori. Se non si pensasse di possedere l’unica verità, forse, non scatterebbe la vocazione alla tolleranza.
Connesso al tema della tolleranza è quello della violenza, dello scontro di carattere religioso. Che le divinità dei Greci e dei Romani fossero coinvolte nelle guerre umane, che fossero immaginate addirittura in guerra fra loro, ciò non toglie che questo scontro non avesse per nulla carattere religioso, ma che la religione rappresentasse, anzi, un motivo per attenuare lo scontro stesso. Tanto più che le divinità facevano parte sostanziale delle comunità, in particolare attraverso quei riti di attribuzione della cittadinanza che Bettini ben spiega. Nel capitolo che non a caso si intitola «Il sacrificio del presepio e le bombe della moschea», Bettini affronta un tema divenuto di forte attualità da qualche anno in occasione delle feste natalizie, da quando, cioè, la presenza del presepio o del Crocifisso, simboli del cristianesimo, nei luoghi pubblici dello Stato (scuole, tribunali), è diventato argomento di polemica; allo stesso modo, Bettini segnala le polemiche contro la costruzione di una moschea in Val d’Elsa. Questo tema riassume i termini della comparazione possibile fra politeismi e monoteismi nella vita non solo religiosa di una comunità. Entrambe le reazioni, la rinunzia al presepio proposta da alcuni insegnanti e genitori di scuole italiane come gesto di rispetto verso altri culti e, dall’altra parte, la protesta di segno opposto, mostrano come al fondo delle due opzioni vi sia un unico vincolo: l’unicità del dio nel quale si crede, al punto che la scelta si può dividere fra: se non quello, meglio nessuno. Eppure, il presepio mi pare possa rappresentare ancora uno spazio nel quale simboleggiare le dinamiche interne a comunità che hanno nella diversità religiosa fra monoteismi un punto vulnerabile. La grotta del presepio mi sembra abbia perso la sua posizione centrale, per la spinta a dare voce e spazi a presenze le più varie, fino all’irruzione, grazie ai ben noti artigiani napoletani, di personaggi dell’attualità. Una sorta di cittadinanza riconosciuta a elementi estranei alla tradizionale ambientazione del presepio potrebbe essere la chiave di volta per aprirlo a una vera tensione politeista, sperimentando un quadro mentale che adottasse gli schemi della traducibilità, della mediazione negoziata: un inizio in cui una nuova cittadinanza risulti visibile e leggibile, per dèi, uomini e donne, ciascuno con le proprie credenze e divinità e, anche aggiungerei, in assenza di esse. —