«Affliggete quel manifesto».Gli #strafalcioni in #italiano degli #studenti #universitari
CORRADO ZUNINO, la Repubblica, 9 aprile 2017
La perla delle perle in un mare di perle è “collimare”. Massimo Arcangeli, già preside della facoltà di Lingue e letterature straniere dell’Università di Cagliari, oggi componente del collegio di dottorato in Storia linguistica italiana dell’Università La Sapienza di Roma, si è fermato. E, pur abituato a raccogliere verbi sconnessi, ha sorriso. Anche lui. Collimare, per un liceo linguistico di Siena, è «la strada tra collina e mare». Alla richiesta di dare un significato della parola offerta, altri liceali hanno regalato queste variazioni sul tema: “collimare” è la domanda «che collina è quella?» oppure «sono le colline in mare» (qui siamo a Siracusa, la ricerca ha riguardato nove regioni). Sempre in Sicilia: «Da tre anni sto in un collimare», «la mia villa si trova in un collimare».
Questi passaggi si trovano nelle risposte raccolte nelle ultime due settimane tra mille studenti di scuole medie e superiori (più dell’ottanta per cento delle quali licei) per il Festival dell’italiano e delle lingue d’Italia, che si è aperto venerdì a Siena e si chiude oggi. Uno studio meno recente (2011-2012), ma ancora più preoccupante perché compiuto tra i 196 universitari sardi dell’allora preside Arcangeli (141 femmine e 55 maschi), ci dice che il 95 per cento delle matricole non conosce il significato di “ondivago”, l’88 per cento di “coacervo”, l’81 per cento non sa che cosa voglia dire “abulico”, tre su quattro non si orientano su “nugolo”. E poi si arriva a “collimare”, exemplum dello stato della lingua italiana tra i nostri studenti. Al primo anno di università è diventato quattro volte “compensare” («dobbiamo collimare le nostre lacune»), quattro volte “riempire” («collimare un vuoto»), tre volte “colmare”. In sei casi “adepto” è diventato “addetto” («lui è l’adepto alla manutenzione»), una volta “adeguo” («mi adepto a ogni situazione»), in quattro risposte “alunno”. “Esimere” tra gli universitari di Cagliari può essere “dare” («vorrei esimere le mie dimissioni»), “fedifrago” diventa “cannibale”. “Indigente” tutto fuorché povero: affidabile, disabile, esigente, esuberante, inadempiente, indisposto, insistente, irresponsabile. Ecco, «l’afflizione dei nuovi manifesti».
Nell’introduzione al Festival, il professor Arcangeli ha ricordato come nel 1863 su 21.777.334 cittadini italiani censiti, solo 3.884.245 fossero quelli che sapevano leggere e scrivere, un analfabetismo che sfiorava il 95 per cento in Basilicata. Allora un pastore lucano finiva fucilato «perché non riusciva a spiegare in italiano che le scarpe che aveva ai piedi non erano state rubate». Fra i pastorelli meridionali di Fine Ottocento e i nativi digitali di oggi la distanza è incolmabile, «eppure l’analfabetismo è tornato a incombere in nuove, insidiose forme funzionali». È l’incapacità di saper leggere e affrontare un testo in modo critico ed efficace, saperlo adattare alle diverse situazioni. Nei lavori di troppi ragazzi oggi si vedono sviluppi elementari delle trame, accenti fuori posto («loro mi rispettano come io lì rispetto a loro»); concrezioni («non lo mai apprezzato»), “che” polivalenti («ci sono compagni che ho un bellissimo rapporto»), errori di sintassi («io spero che non ci saranno più questi gruppi e che diventasse una classe come tutte le altre»).
Dice Arcangeli: «Oggi il numero di chi scrive in modalità digitale è incomparabilmente elevato, ma si registra l’insufficienza di una qualità che proceda di pari passo con la quantità, di una lingua, una logica e una cultura che s’impegnino per andare oltre la superficie e si ancorino a una qualunque terra». L’analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli preoccupanti e sta riaffiorando quello strumentale: la totale incapacità di leggere, scrivere e far di calcolo. «Molti dei nostri giovani non riescono a sottrarsi alle insidie dei loop, delle riprese ingenue del già detto, non sanno procedere ordinatamente e non riescono a riprendere il filo del discorso dal punto in cui lo hanno interrotto. Il futuro? La prepotenza visiva dei nostri tempi potrebbe vaporizzare le qualità necessarie per affrontare una pagina scritta. Potremmo essere traghettati nell’instabilità permanente delle lingue, un ritorno a condizioni premoderne, l’analfabetismo dell’Europa medievale».
Abulico è il modo in cui usiamo le parole
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica, 9 aprile 2017
No, «abulico» non significa «aulico», con una B aggiunta; né «adepto» è un’ortografia alternativa per «addetto» o per «adatto». Non è la barzelletta della moglie che racconta del marito, «appassionato sifilitico» e lui che grida disperato dall’altra stanza: «Filatelico, Luisa: filatelico!». Né un servizio delle Iene, con i parlamentari che non sanno rispondere alla domanda: «Che cos’è la Consob?». Ma è un test analogo quello con cui il linguista Massimo Arcangeli ha aperto a Siena un festival della lingua italiana da lui diretto, intitolato “Parole in cammino”.
Il cammino va molto, negli slogan politici francesi e italiani: non si sa se la relazione introduttiva abbia anche ricordato il romantico messaggio telematico di un corteggiatore più caloroso (è la parola) che preciso: «Vorrei essere sempre al tuo fianco, nel tuo camino» (con una M).Il campione del test era composto da 196 studenti del primo anno di Linguistica italiana dell’Università di Cagliari. La loro quasi totalità ignora parole come «coacervo» o appunto «abulico». Più della metà non ha indicato il significato di «collimare», «indigente», «millantatore», «pusillanime»; anche su «ostico», «modico» e persino «inetto» si sono registrate perplessità sconfortanti e l’«afflizione» è stata considerata pertinente ai manifesti pubblicitari per strada (e sarebbe peraltro una splendida innovazione).Ma sono esempi solo divertenti o, appunto, anche sconfortanti? Bisogna deciderlo perché ci si può divertire con qualcuno o anche alle spalle di qualcuno; soprattutto ci si può sconfortare vanamente. Trattandosi di università, forse occorre che chi conosce il significato di tali parole (e di mestiere non fa il filatelico) non sia abulico, né inetto, né pusillanime. Nei suoi corsi universitari e post-universitari di lingua inglese e scrittura, per esempio, David Foster Wallace usava fornire pazienti precisazioni, avendo appurato che in gran parte gli studenti usavano nauseous (nauseabondo) volendo intendere nauseated (nauseato). Lo riteneva parte delle sue mansioni, non se ne stupiva né sconfortava. Agli studenti di colore segnalava che per aspirare a diventare classe dirigente occorreva padroneggiare la complessità della varietà d’inglese più prestigiosa (e «bianca», e «Wasp»). Una varietà italiana «di prestigio», invece, neppure esiste; né, non esistendo, può essere necessaria ad alcuna carriera. Abulico (per essere chiari: indolente e svogliato) è il nostro uso dell’italiano. Ogni ragionamento conseguente converrebbe farlo partire da qui.