#Addio #prof

Un dossier rivela: dal 1995 a oggi hanno abbandonato la #scuola tre milioni e mezzo di #studenti. E così il Paese declina

di Francesca Sironi (Espresso 3/6/18)

Il deserto avanza. E il sistema che dovrebbe dare futuro alle nuove piante ne lascia invece seccare una su quattro. Dei 590 mila ragazzi che a giorni inizieranno le superiori, 130 mila non arriveranno al diploma. Abbandoneranno cioè l’istruzione statale prima dei 18 anni. Significa che in ogni classe, con i suoi 27 neoalunni che si conosceranno a breve, alla prima campanella, sei scompariranno dall’aula prima del traguardo. Diranno addio agli studi prima di averli portati a termine. La dispersione scolastica – che per molti dovremmo chiamare piuttosto “falla” scolastica – è un’ipoteca sul presente e il futuro di intere generazioni. La misura di questa crepa viene restituita ora da un dossier della rivista specializzata Tuttoscuola che L’Espresso può anticipare in esclusiva. Confrontando il numero di quanti sono entrati in istituti tecnici, professionali o licei e quanti ne sono usciti cinque anni dopo con un titolo, dal 1995 a oggi, Tuttoscuola mostra infatti come l’Italia abbia perso lungo la strada tre milioni e mezzo di studenti dal 1995 a oggi. È una voragine: il 30,6 per cento degli iscritti scomparso. Registrato come assente all’appello e di lì lasciato alla deriva. Certo, in questi oltre vent’anni sono stati alzati argini, spesso grazie a iniziative esterne, di volontari e associazioni. E il tasso di abbandono è diminuito: nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del duemila. È un miglioramento, ma non una vittoria, una tendenza che non può distrarre dalla crisi. Perché l’incuria intorno e lo sconforto interno che portano gli adolescenti a far cadere i manuali prima di averli letti, sono gli stessi spettri che rischiano poi di trattenerli a lungo in quella macchia che è la conta triste dei Neet, di cui l’Italia detiene un primato europeo: giovani che non studiano né lavorano, che non vedono alcuna prospettiva all’orizzonte. È il vuoto lattiginoso dentro cui è chiuso un ventenne su tre al Sud; in tutto il paese, sono oltre due milioni. «Si può evitare questa immane, ennesima catastrofe culturale, economica e sociale, che avviene proprio davanti ai nostri occhi disattenti e rassegnati?», si chiede Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, introducendo il dossier, “La scuola colabrodo”: «Per farlo di sicuro bisogna partire dal sistema scolastico». La domanda dovrebbe occupare trasversalmente i dibattiti. Scuotere più di un ministero. Ma i leader, di qualsiasi colore siano, sembrano impegnati piuttosto a promettere unzioni universali e bonus che non a guardare a questa prevenzione necessaria per l’infrastruttura stessa del paese, quella umana. Per provare allora ad attirare più attenzione, Tuttoscuola ha fatto anche dei conti. In denaro: ha calcolato quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria. Il costo degli abbandoni – misurato correttamente, in base a quanti lasciano dopo uno o due anni, e così via – si misura allora in cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-2014 e 2014-2018. Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre. Ancora non importa a nessuno, questo spreco? Guardando ai 23 anni presi in considerazione dal dossier (1995- 2018), la cifra diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro. È la misura di un fallimento sociale, oltre che economico, enorme. E che ne racchiude altri, perché come ricorda il rapporto di Tuttoscuola, più istruzione significa anche più lavoro, più salute, più democrazia. Mentre lasciar seccare l’insegnamento, e la sua copertura, significa togliere strumenti e possibilità agli attuali e prossimi cittadini, quindi all’Italia come paese. Ne parla con un’indignazione immutata e con l’urgenza di chi preme perché le cose cambino Cesare Moreno, maestro elementare dal 1983, tra i fondatori di “progetto Chance” che si occupa a Napoli del recupero di alunni scappati dai banchi, e oggi presidente di Maestri di strada. «Se rottamiamo un giovane su tre senza averlo mai impiegato non è una questione che riguarda solo la scuola. È un disastro per l’intera società», attacca. Le cause? Per lui stanno in «un rapporto intergenerazionale che fa schifo, per usare un eufemismo, e in un sistema educativo a cui continua a mancare un pezzo fondamentale: abbiamo una scuola parolaia, ancorata alla cattedra, mentre servono più pratiche, meno prediche». Più laboratori, che coinvolgano i giovani da protagonisti. E soprattutto, insiste, più ascolto. In Campania, mostrano i dati di Tuttoscuola, l’abbandono è altissimo: il 29,2 per cento degli studenti non arriva al diploma: il tasso più alto dopo la Sardegna, dove gli addii (su un corpo studentesco più piccolo, ovviamente) sono il 33 per cento. Ma quali sono le parole che usano i ragazzi per raccontare il motivo che li ha portati ad andarsene? Principalmente due, racconta Moreno. «La prima è “sfastidio”, che in napoletano significa: mi annoio. È un’ombra estesa a tutto: allo studio, al gioco, alla vita». Lo spleen ch’era patrimonio esistenziale delle élite sartriane ha preso largo spazio nel sottoproletariato, dice Moreno, come assenza di speranza e prospettive. Come deserto che si presenta tale soprattutto a chi non ha strumenti per trovare la propria rotta. «Non riusciamo a presentare ai ragazzi una versione del mondo in cui ci sia posto per loro, diceva Jerome Bruner. Nel labirinto di scelte e di opzioni che s’apre oggi di fronte ai giovani, in questa confusione dove ogni cosa va inventata, non sappiamo aiutarli a comprendere quello che è giusto per loro». La seconda voce ricorrente nei discorsi sospesi di chi ha lasciato i libri è, aggiunge: “tengo problemi”, ovvero l’attitudine a descriversi attraverso i propri difetti. Come vittime, portatori di deicit. Invece di lavorare sul proprio desiderio, sono fermi a raccontarsi nel bisogno». Perché non riescono ad ascoltarlo, quel desiderio, non vedono un’aspirazione possibile. Perché mancano loro bussole per orientarsi. E quelle rimaste in classe sembrano troppo spesso coperte di polvere. «Lo zaino che preparo alle mie figlie ha dentro le stesse cose, gli stessi autori spesso, che portavo io sulle spalle trent’anni fa. Il mondo fuori nel frattempo è diventato un altro ilm. Ma la scuola è rimasta in molte parti immobile». Simona Ravizza dirige una struttura contro la dispersione nel centro di Monza, per l’associazione Antonia Vita. Uno spazio dove si ofre sostegno a chi sta per allontanarsi dalle medie o non riesce a portarle a termine. «Non facciamo altro che dare attenzione, in realtà. Per spiegare perché non riuscivano a stare in classe, i ragazzi ci dicono: “la prof non perdeva tempo a farmi capire”, “mi sembrava di essere scemo”. Ma è proprio da questa svalutazione, da questo sentirsi “cretini” che inizia spesso l’abbandono», dice. «Far capire che ti importa di loro, invece, che non molli, che te ne frega, permette di cambiare prospettiva. Di scoprire ad esempio un bambino dotatissimo in matematica, come ci è successo l’autunno scorso, che faticava in aula perché gli mancava sempre qualcosa: un quaderno, una firma, un compito. E la maestra si spazientiva». Quei pezzi che mancano nello zaino sono a loro volta segnali di un disagio diicile da colmare, però, e che inizia a casa. «Anche qui in Brianza abbiamo visto aumentare molto la povertà, negli ultimi anni, fra italiani come nelle famiglie straniere», continua Ravizza: «Offriamo la colazione, la mattina, perché diversi nostri alunni altrimenti non la fanno. O li lasciamo restare al pomeriggio perché nella loro stanza non avrebbero il riscaldamento fino a sera». La povertà, ricorda Save he Children, riguarda oggi oltre un milione di bambini. La crisi ha tolto loro coperte, servizi, pasti abbastanza nutrienti ogni giorno. E sembra aver reso ancora più diicile la possibilità di scavalcare il guado del censo, più iniqua la strada che inizia dal primo anno di scuola e accompagna al futuro. «In una ricerca che pubblicheremo a breve abbiamo dimostrato come ogni bocciatura aumenti di sei volte il rischio di abbandono. E chi sono i bocciati? In larga parte: i più poveri. I figli dei redditi più bassi. So che arriveranno diverse testimonianze di eccezioni: ma è una realtà statistica», spiega Federico Batini, professore associato di Pedagogia sperimentale all’Università di Perugia, e autore di numerosi studi e interventi progettuali sulla dispersione: «La scuola rischia di dimostrarsi così ancora come un’agenzia di selezione. È allora necessario ripensare i sistemi di valutazione e le pratiche didattiche». Come invertire l’eredità dell’esclusione che si porta in aula come una tara, e rischia di tenere ai margini anche chi riceve formalmente un’istruzione? Come fermare la desertificazione dell’abbandono scolastico? «Intanto ribadendo un’indicazione semplice e chiara: bisogna attivarsi per far recuperare e potenziare le competenze di base. Ripartire dalla comprensione del testo, ad esempio. Perché sono le fondamenta, oggi, a mancare ai ragazzi», dice Batini. Spesso pure fra chi ottiene un diploma, surfando su nozioni senza conquistarle, arrivando al traguardo senza la capacità di afferrare pienamente i significati letti. Senza avere insomma gli strumenti che servono per decidere. È una sconfitta immane, per una democrazia. Tanto più ingiusta quanto più disuguale: come mostra il rapporto di Tuttoscuola, da un liceo classico si allontana in anticipo “solo” il 17,7 per cento degli iscritti. Negli istituti professionali statali – dove va pure meglio che un tempo – dei 140mila alunni che avevano iniziato il percorso ai primi di settembre del 2013, soltanto 95mila hanno concluso a giugno con un diploma. Gli altri – uno su tre – hanno desistito. E nessuno li è andati a cercare. Magari si sono rivolti a strutture private, o alla formazione regionale, là dove funziona. Ma intanto, di certo, lo Stato ha rinunciato. E sì che per rafforzare quelle fondamenta necessarie non servirebbero per forza acrobazie sperimentali o piani didattici iper-specialistici, burocratici o costosi. Anzi. Basterebbe, ad esempio, leggere più spesso ad alta voce. «Un progetto che abbiamo appena concluso in Toscana, “No Out” prevede l’introduzione di giochi collaborativi basati su compiti di realtà, ma soprattuto la lettura quotidiana di testi letterari ad alta voce, in classe», spiega Batini: «I risultati, rafforzati dal confronto con chi non aveva partecipato al test, ci hanno confermato un elemento su cui in molti insistiamo da tempo: la lettura ad alta voce ha un impatto straordinario non solo su tutte le funzioni cognitive. Ma anche sulle emozioni». Quindi sulla capacità di essere empatici. E sulla possibilità, banalmente, di creare classi (prima ancora che una società) dove si vive meglio: un altro elemento che conta, parecchio, nelle dinamiche che portano all’auto-esclusione da scuola. L’ostilità o l’indifferenza dei compagni emergono come radici in tante storie di abbandono. Insieme alla mancanza di tempo dedicato loro dagli insegnanti. Anche questi mortificati, da piani di ingresso che, ricorda Tuttoscuola, dovrebbero farsi «veramente selettivi» per premiare i migliori; da riforme che centrifugano priorità e investimenti a ogni legislatura; da stipendi più bassi della media europea e che progrediscono poco con l’anzianità; da protagonismi a volte eccessivi delle famiglie; da condizioni insomma che portano gli stessi prof, a loro volta, alla fuga. «Serve un nuovo patto», conclude Vinciguerra. Un patto che porti acqua all’ascolto e alla centralità della scuola pubblica nella nostra democrazia. L’unica risposta possibile per prevenire l’avanzata del deserto.

E chi invece ce la fa poi scappa all’estero

“Eures” è un portale europeo per la ricerca di impiego. Sulla piattaforma sono registrati centinaia di migliaia di annunci, fra offerte d’occupazione aperte e candidature disponibili. La stragrande maggioranza dei curriculum presenta come titolo almeno una laurea, triennale o specialistica, oppure master o dottorati. Si tratta insomma di una bacheca che intercetta giovani in gamba, laureati, che vogliono lavorare in un altro paese europeo. E qual è lo Stato che ne offre di più? L’Italia. Le statistiche aggiornate al 3 settembre segnalano sul portale 75 mila italiani in cerca di lavoro oltreconfine. La Spagna, che segue, ne ha 64 mila. Terza la Francia, con solo 19 mila cv. Siamo i più europeisti di tutti, quando si tratta di emigrare per un posto. Lo hanno confermato anche i dati del dossier Statistico Immigrazione curato da Idos e Confronti l’anno scorso. Nel corso del 2016, stimava il rapporto, su 114 mila nuovi emigrati – una cifra conservativa, che riguarda solamente le cancellazioni, mentre i trasferimenti all’estero complessivi riguarderebbero almeno 285 mila persone – i diplomati sono 39 mila e 34 mila i laureati. Si tratta di forze cresciute nel nostro sistema scolastico, arrivate fino all’università, ma poi in fuga dall’Italia per la ricerca di una carriera, o un impiego, che sia in linea con quanto hanno studiato, in un ambiente che premi il merito e non la clientela, o ancora soltanto in una città che dia loro più orizzonti. Certo, la fortuna degli expat altrove può essere il segnale di un istituzione educativa che funziona, di atenei eccellenti e competitivi nel mondo. Ma è allo stesso tempo l’ennesimo frammento di un sistema in crisi: di orientamento, di opportunità, di crescita che mancherà al paese. Oltre alla prova di un investimento in parte “perso” per l’Italia, almeno se guardato da Roma: Idos e Confronti, insieme all’Istituto di Studi politici San Pio V hanno calcolato, infatti, partendo da dati Ocse, che per ogni diplomato Stato e famiglia spendono in media 90 mila euro; che diventano 158 mila per ogni laureato triennale; 170 mila per chi ha il titolo magistrale; 228 mila per i dottori di ricerca. È l’altra crepa su cui insiste il rapporto di Tuttoscuola sulla dispersione. Poco più della metà dei diplomati infatti diventa matricola. E a sua volta, mostra il dossier (“La scuola colabrodo”), soltanto uno su due circa, si laurea. «Insomma, su 100 studenti che ottengono la licenza media, in 75 arrivano al diploma (almeno nella scuola statale) e alla laurea solo in 18», mostra la ricerca: «Se si trattasse di una fabbrica, sarebbe già chiusa da tempo. Un sistema formativo che fabbrica dispersione è una macchina che gira a vuoto».

Scaffale

“L’insegnante di terracotta”, Michele Canalini, (Mimesis editore) Pressati dai diktat tecnologici. Stretti dagli esperti, marcati dai genitori, a tre anni dalla Buona scuola e coi proclami del governo, i docenti rischiano di andare in frantumi. Una lettura per evitarlo.

“Tutti i banchi sono uguali”, Christian Raimo, (Einaudi) Il classismo in classe. Ovvero: la scuola che non sa promuovere l’uguaglianza, che non dà le stesse opportunità, che disattende la Costituzione. Con dati a dimostrarlo.

“Perché devo dare ragione agli insegnanti di mio figlio”, Maria Teresa Serafini, (La nave di Teseo) Gli insegnanti hanno sempre ragione. Punto. Come recuperare iducia scolastica. E impostare sani rapporti tra adulti.

“Sull’attualità di Tullio De Mauro”, Ugo Cardinale (il Mulino) Perché va protetta l’eredità del linguista.

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